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BIOGRAFIA
  - DICONO DI LUI / Raimondo Vianello
 
     
 
     
 
Raimondo Vianello  

Conversazione con
RAIMONDO VIANELLO

 
 
     
  Lui mi ha visto in teatro. Io stavo facendo una rivista teatrale, per la prima volta senza il comico mattatore: eravamo quattro "pseudogiovani" che facevano un corale, s'intitolava "Black & White", Tognazzi ci vide e l'anno dopo ci volle con lui nella sua compagnia. Per un po' noi due abbiamo fatto le "canzoni sceneggiate", poi nel '54 ci chiamò la Rai per presentare "Un due tre": io avevo comprato la televisione per vedere i mondiali di calcio in Svizzera e così decidemmo di fare le parodie dei programmi televisivi, e siccome la televisione la guardavo solo io ero io che in treno, mentre andavamo a fare lo spettacolo gli spiegavo come fare la parodia di cose che lui non aveva mai visto. Si lavorava a Milano in un clima di straordinaria allegria da parte di tutti, tutti erano contenti di partecipare. Lui aveva una splendida capacità di trovare spunti comici. Arricchiva i personaggi che parodiava. Era molto istintivo e impulsivo: se ad esempio non sentiva una risata immediatamente non appena entrati in scena, cominciava subito a preoccuparsi e a guardarmi in modo interrogativo, preoccupato. In teatro rideva molto con me: avevamo un affiatamento talmente forte nel cinema, in televisione, in teatro, che stavamo sempre insieme anche dopo lo spettacolo, legatissimi anche dalla passione per il calcio. Al cinema lui si lanciò con "Il federale", e confermò il successo con "La voglia matta": lì ci separammo. D'altra parte lui stesso prima di "Il federale" mi aveva detto in tutta sincerità che se lo avesse girato con me avrebbe fatto un po' il solito film comico di serie B: io gli diedi ragione e non feci il film, ma rimanemmo talmente legati che mi chiamava sempre a vedere il girato chiedendomi un giudizio. Anche dopo siamo comunque rimasti molto amici, e anche i suoi figli hanno sempre saputo che lui aveva un affetto particolare per me. Certo, ci si vedeva molto meno. D'altronde lui faceva cinema da una parte e io facevo televisione dall'altra: come si faceva a stare insieme?  
     
     
 
L'esame al pubblico
 
     
  Io mi devo divertire. L'attore, quello che ha dentro di sé la vocazione, si appaga con lo stare in scena, ma a me non basta. Ugo, quando si andava in qualche piazza e il pubblico non rideva alle battute come ci aspettavamo, si arrabbiava da pazzi e tirava via velocissimo, dicendomi: «Vai, vai, vai più forte che puoi!».  
     
     
 
I giganti della montagna
 
     
  Ho sempre cercato il divertimento personale, oltre a qualcosa per far ridere gli altri. Ricordo quella volta che presero il povero Gino Bramieri, per scoprire poi che non c'erano parti adatte a lui. Così, per dargli un contentino gli fecero fare una presentazione scendendo da una scala con le ballerine. Mi diceva: «Ma io mi sento un pesce fuor d'acqua...». E io, naturalmente, lo rassicuravo. Però poi mi avvolgevo dentro alle quinte di velluto e, mentre scendeva, facevo un fischio fortissimo, che sembrava provenire dal pubblico. Lui veniva a lamentarsi con me e io gli dicevo: «Vedi, tu sei un comico milanese, qui a Roma non ti conoscono, porta pazienza...». Anche durante il duetto d'amore fra la Osiris e Gianni Agus, io salivo in graticcia e li bombardavo con le brocchette, che sono i chiodini usati dai macchinisti. Agus lo seppe anni dopo da mia moglie e ci impazzì, lui poi che era un professionista perfetto, oltre che un grande attore...  
     
  Nelle riviste televisive che scrivevo con Terzoli e Vaime l'ho chiamato tante volte. Una volta mi disse: «No, guarda, Raimondo, io questa non la posso fare: ti ringrazio dell'offerta ma io ho fatto I giganti della montagna e questa non la posso proprio fare». Così gli misi in copione, nel primo sketch, proprio la sua battuta: «No, guarda, questa non la posso fare, ti rendi conto che ho fatto I giganti della montagna...», che divenne un tormentone di grande successo. In "Tante scuse" facemmo vedere per la prima volta il backstage: i camerini, i corridoi, il bar della RAI... introdussi questi svincoli, così che la trasmissione diventava quasi una commedia. C'era Micheluzzi che faceva il suggeritore, Enzo Liberti faceva il capo claque, il bonario romano de core che si scandalizzava perché io facevo l'umorismo nero: «Sor Vianello, ma nun se pò, pora creatura...». Una volta mi portò suo figlio, non un figlio vero, eh? Era una scenetta che avevo scritto io; e siccome odiavo la melassosa atmosfera natalizia, durante il coro di Natale appioppavo anche uno schiaffo al ragazzino.  
     
     
 
Schiaffi
 
     
  A proposito di schiaffi, ne appioppavo uno tremendo a Tognazzi nel finale della parodia degli sceneggiati di cappa e spada che facevamo in "Un, due, tre": "L'odio d'Oliva". Era presentato con lunghissimi titoli di testa, un rullo interminabile nei quali a decine di personaggi mente deformati, ma poi la scenetta era brevissima, e finiva sempre con questo sonoro schiaffone a Tognazzi.  
     
     
 
Taracchi
 
     
  In toscano io feci il Taracchi, anzi, quello che ce l'aveva col Taracchi. Ero un carrellista, Osvaldo Bracaloni, e il Taracchi era questo capomacchinista grosso e prepotente che mi angariava, e mi consentiva di dire: «Taracchi, tettu 'n mi fai paura, tettu t'attacchi...». Un bellissimo personaggio; la gente mi chiamava Taracchi per la strada. Perché io nel "Giocondo", il varietà del 1963 con Abbe Lane e Xavier Cugat, dissi a Scarnicci e Tarabusi: «Vorrei fare un personaggio che faccia parte dello studio, per non obbligare a cambi di scena troppo frettolosi». Così venne fuori l'idea del carrellista. Misi una parrucca corta, bassa, i baffi che poi tolsi, o viceversa. Mi feci dare una tuta della RAI, ma contro il mio solito non provai il costume prima di andare in scena, e quando la indossai, in quinta come sempre, mi accorsi che era cortissima e che le bretelle della salopette non si allacciavano. Per poterla mettere entrai in scena molto curvo, quasi piegato in due. Il personaggio ne guadagnò tanto che poi la tenni, questa postura buffa. E il Taracchi chiamava Abbe Lane "la soraabbe". In "Un, due, tre" c'era un altro scioglilingua toscano: «Tito tettu tt'ha ritinto il tetto, ma te t'un t'intendi tanto di tetti ritinti...».  
     
     
 
Rivolta contro il Taracchi
 
     
  Con Tognazzi la chiave era il bozzetto toscano. Lui lo scioglilingua toscano non lo sapeva dire, e allora io glielo facevo. Lui ci provava, ma non ci riusciva perché non era effettivamente capace, e si prendeva un sacco di risate perché il pubblico credeva che fosse un errore intenzionale. Piacque tanto che la si rimise in un film, "Pugni, pupe e marinai", in cui i marinai entravano in uno studio televisivo dove c'erano Tognazzi e Vianello: gli attori, però, non i personaggi. La prima volta che feci il Taracchi i macchinisti la presero a male, dicendomi: «Tu hai preso in giro la categoria, ci hai messo in ridicolo...». Poi furono molto carini, capirono e ci rappacificammo. Anni più tardi ripresi il personaggio in Studio Uno con la Vanoni e con Renzo Montagnani che, essendo toscano, faceva il mio capomacchinista; quando me ne andai (il mio contratto durava quattro settimane) le maestranze mi salutarono inalberando dei cartelli: «Osvaldo non te ne andare», «Osvaldo torna», «Grazie Osvaldo...». Cose che fanno molto piacere...  
     
     
 
Crisi di identità
 
     
  In un altro sketch c'era un ingegnere che spiegava la tecnica dell'estrazione petrolifera. E questo ingegnere aveva un nome strano: «Sono l'ingegner Bertonsicini». Il nome non era questo, ma insomma suonava più o meno così. Allora l'ingegnere va al traliccio del pozzo (e Tognazzi ci aveva scritto sopra le sue battute perché naturalmente non le sapeva a memoria) e gli fa: «Buongiorno, lei si chiama?». «Bertonsicini!» «Ma come» gli replico io in diretta, «te l'ho detto adesso in quinta che Bertonsicini sono io!» E lui, tutto contrito: «Mi scusi, ingegnere! Mi scusi!».  
     
  Per di più, in quella circostanza, Tognazzi faceva lo strabico e non riusciva a leggere quel che aveva scritto. Questi erano i nostri divertimenti privati che il pubblico naturalmente non capiva, ma che ci facevano ridere come pazzi. Un'altra volta faceva il negro e io l'esploratrice. I labbroni posticci da negro gli caddero in scena, e lui s'arrabbiò e cominciò a protestare: «Buoni a nulla! Non sapete far niente!». Gran risata del pubblico che credeva fosse tutto previsto.  
     
     
 
La conquista dello spazio
 
     
  Adesso si parla di televisione volgare, ma anche allora non si scherzava. Ci fu il cagnolino lanciato nello spazio, Laika. Tognazzi interpretava l'inventore e arrivava con una astronave sferica parlando un italiano americanizzato. Io gli dicevo: «Ci mettono un animale, vero?». «Sì, uno strunzzo» specificava lui. «Come mai, professore, proprio uno struzzo?» «Perché solo uno strunzzo poteva accettare di andare nello spazio.»  
     
     
 
Serate
 
     
  Serate non ne facevamo quasi, perché non avevamo lo spirito delle serate. Poco repertorio, poco tempo. Una volta siamo andati a Viareggio. Gassman girava lì vicino un film con Virna Lisi e ci venne a vedere. Facevamo più o meno le cose di "Un, due, tre": Bartali, parodie, donne che lavorano eccetera. La sera dopo ci ripresentiamo. Il pubblico era cambiato, ma Gassman no: era tornato a vederci, e nel bel mezzo del nostro spettacolo si alzò in piedi e disse: «Questo l'avete già fatto ieri sera!». Io, naturalmente, che ero stato suo compagno di scuola, gli risposi per le rime: «Ma cosa vuoi?! Se l'abbiamo già fatto ieri sera, tu non ci venire», e così via, in un battibecco scherzoso fra scena e platea. Mentre Ugo, che non lo conosceva di persona, mi chiedeva sottovoce: «Ma fa sul serio, questo?».  
     
     
 
Ugo, il tennis e il peperone
 
     
  Nel teatro di rivista, o nella televisione dei primi tempi, c'è in nuce tutto lo spettacolo leggero di questi ultimi cinquant'anni. Ugo, ogni volta che c'era un comico nuovo alla televisione s'infuriava: «Queste cose le abbiamo già fatte noi, ma come si permettono di riscodellarle così?». E voleva che scrivessi un film, «dove noi due, ormai a questa età, passeggiamo qui», aveva casa a Velletri, allora, «lungo il vigneto, e poi si materializza lo sketch, e così facciamo vedere che queste cose le abbiamo già fatte, perché voglio che si sappia!». E io gli ribattevo: «Ugo, tu hai ragione, ma è un po' patetico, no? La passeggiata dei due vecchi attori... che fin lì va bene, ma dopo? Come facciamo a levarci venti anni di dosso per fare lo sketch?».  
     
  «Va be', ma le parrucche aiutano» insisteva lui. Ugo organizzava i tornei di tennis a Torvajanica. Una volta mi disse: «Vieni prima che facciamo un bagno in piscina, poi mangi...». Era agosto. A pranzo c'erano i peperoni ripieni, e ai miei dubbi Ugo ribatte: «Ma che t'importa, mangiali tranquillamente, tanto giochi stasera, con la luce artificiale...». «E contro chi gioco?» «Mah, non si sa ancora, c'è da fare il sorteggio, comunque giochi stasera». Be', dopo mangiato, in piena digestione dei micidiali peperoni mi fa: «Senti, Raimondo, mi dispiace ma per un contrattempo devi giocare subito». «E contro chi?». Confessò che dovevo giocare contro un famoso produttore cinematografico che doveva tenersi buono perché ci voleva fare un film, motivo per cui m'aveva minorato col peperone. Vinsi, nonostante tutto. Diverse volte giocammo insieme, e arrivammo anche in finale. «Tu giochi da libero» mi diceva. «Come da libero? Questo è tennis, non calcio!». Voleva dire a fondo campo, dove mi dannavo l'anima a rincorrere tutte le palle, perché lui si piazzava a rete, immobile, ieratico, e chiudeva il punto solo se gli tiravano addosso. Ugo era un tennista autodidatta e veniva eliminato quasi subito. Allora si dava da fare per trovare flebili pretesti per giocare ancora: «Le donne sono dispari, nel doppio subentro io con loro eccetera». E poi c'era il calcio, altra passione che ci univa molto... lui gran milanista, ha avuto uno zio addirittura dirigente che gli aveva dato le maglie per la polisportiva di Cremona dove lui giocava in porta. I suoi compagni gli chiesero: «Facci avere le maglie, tu che hai uno zio dirigente al Milan». Lui si fece dare le maglie, e subito dopo quelli lo cacciarono via dalla squadra. E lui la raccontava, questa vecchia storia, come si racconta una bruciante sconfitta.  
     
     
 
Libro bianco
 
     
  Scarnicci e Tarabusi scrissero anche, per me e Sandra, "Chicchere e manette", sul modello della coppia dei coniugi Maigret, ma naturalmente comico. Il primo di questi gialli era straordinario, bellissimo. La RAI dava un anticipo, poi la Siae avrebbe saldato una volta realizzato e trasmesso il giallo. Alla RAI erano entusiasti, e dissero: «Ne facciamo sei». E che fecero Scarnicci e Tarabusi? Gli portarono uno dopo l'altro altri cinque copioni in bianco, con solo le prime pagine scritte, e con tutti gli altri fogli completamente bianchi. Ci voleva solo la loro faccia tosta, per fare uno scherzo così...  
     
     
 
A Sanremo con Ugo
 
     
  Una volta anche con Ugo andammo a Sanremo. Dovevamo fare un siparietto di cinque o dieci minuti per spezzare le canzoni, o in attesa dei voti. Non sapevamo che fare; e quando ci chiedono: «Volete fare una prova?» rispondiamo «Volentieri!». Allora si lavorava al teatro del Casinò, non all'Ariston come oggi. Andammo su e cominciammo a improvvisare due o tre battute su Fanfani e altri politici di governo assortiti. Gli organizzatori ci guardarono con vivo interesse, ci ringraziarono e ci dissero: «Purtroppo per ragioni di tempo non possiamo più inserire il vostro sketch». Ci pagarono fino all'ultima lira, ci salutarono, e proseguirono col loro festival. Insomma: una partecipazione ideale.  
     
     
     
  FOTOGALLERY  
     
 
 
Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi   Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi   Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello
 
     
 
Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi   Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi   Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi
 
     
 
Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi   Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello   Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi
 
     
 
Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi    
 
 
 
     
   
   
 
 
 
LA VITA DI UGO
 
 
UGO RACCONTA
 
 
DICONO DI LUI
     
  Alberto Sordi
     
  Bernardo Bertolucci
     
  Coro della piccola città
     
  Diego Abatantuono
     
  Donata Tarabusi
     
  Edwige Fenech
     
  Elena Giusti
     
  Enrico Lucherini
     
  Enrico Medioli
     
  Furio Scarpelli
     
  Lorenzo Baraldi
     
  Maurizio Nichetti
     
  Michele Placido
     
  Morando Morandini
     
  Ornella Muti
     
  Paolo Villaggio
     
  Piero De Bernardi
     
  Raimondo Vianello
     
  Stefania Sandrelli
     
  Tullio Kezich
 
 
LA CRITICA E UGO
 
 
UGO TOGNAZZI E RAIMONDO VIANELLO
 
     
 
 
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