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Negli ultimi anni della sua vita Ugo Tognazzi era tornato al teatro, dove avrebbe ancora continuato a lavorare se la morte non glielo avesse impedito. Due eccentriche interpretazioni di altrettanti classici teatrali, "Tartufo" e "L'avaro" di Moliére (un grande commediografo che non senza ragione egli doveva sentire congeniale) suscitarono, è vero, qualche perplessità, ma innegabilmente recavano il segno di un estro e di una naturale spregiudicatezza che in lui erano favoriti da modelli di recitazione non legati ad alcuna scuola di alta tradizione e proprio per questo capaci di reinventare un personaggio senza subordinarlo alle convenzioni o, peggio, alle mode passeggere. Fu, questo, un ritorno alle origini, dettato in parte forse dalla consapevolezza di un naturale declino della propria carriera cinematografica, particolarmente avvertito da un attore come lui, così saldamente radicato in un clima culturale fortemente caratterizzato, e perciò "datato" (come si suol dire, attribuendo però ingiustificatamente all'aggettivo una connotazione negativa), qual era quello legato al costume del nostro paese nella fase di passaggio da una società precapitalistica ai fasti del miracolo economico degli anni Sessanta. Oggi possiamo affermare che questo suo ritorno al teatro suggellò più
o meno volontariamente un lavoro artistico che proprio sul palcoscenico aveva cominciato ad affilare le sue armi, modellando una fisionomia d'attore che avrebbe conferito un inconfondibile timbro alle sue grandi interpretazioni cinematografiche della maturità. Prima di "Il Federale" (1961) di Luciano Salce, egli aveva girato, nell'arco dell'intero decennio Cinquanta, trentacinque film, alternando ruoli da protagonista ad altri di supporto (perfino in quello di Salce, film cerniera della sua filmografia, Tognazzi è in realtà coprotagonista con Georges Wilson). Ciononostante non è difficile trovare nelle recensioni d'epoca dei film appartenenti alla sua prima fase qualche accenno a lui e talvolta qualcosa di più
di un semplice attestato di stima. Sorprendente perciò appare la lungimiranza di critici non blasonati nell'individuare i meriti del giovane attore, nonostante la prassi giornalistica consueta negli anni a cavallo dei Cinquanta, quando la produzione media non attirava ancora quell'attenzione che le sarebbe stata riservata qualche anno dopo, forse con qualche eccesso, anche sulle pagine delle riviste maggiori. Naturalmente i primi approcci cinematografici di Tognazzi sono condizionati dal mediocre livello del cinema comico italiano del decennio, quando non soltanto lui ma anche la schiera nutrita di attori della sua generazione che ne affollavano gli schermi non avevano molte occasioni per mostrare fino in fondo il proprio talento. Quello che sarebbe diventato uno dei grandi protagonisti di una felice stagione del nostro cinema, che ebbe con la cosiddetta commedia all'italiana uno degli episodi centrali, aveva percorso tutte le tappe, anche le più
"basse", dello spettacolo, dall'avanspettacolo ai varietà rutilanti di lustrini e soubrettes, a partire dal dopoguerra, fino a conquistarsi quella grande popolarità che soltanto la televisione consente nella misura che toccò a lui con il programma di successo "Un, due, tre", del quale si ricordano alcuni graffianti spaccati dell'Italietta di quegli anni nonché i primi saggi di un tipo di recitazione spesso fissata sul modello della "maschera", che il cinema avrebbe poi sapientemente esaltato: una maschera sorniona e ironica, tipica di un personaggio che, al di là dell'apparente leggerezza e di estri superficiali, nascondeva un fondo di disincanto e perfino di risentito moralismo: quello che l'attore espresse compiutamente soprattutto negli anni della maturità, con "Il Commissario Pepe" nel film di Ettore Scola (1969) o col giudice istruttore Mariano Bonifazi di "In nome del popolo italiano" di Dino Risi (1971). Sono gli anni in cui si viene precisando una fisionomia d'attore, che, nell'arco della tipologia segnata dai legami con la propria terra, tipica del nostro cinema, assume connotati regionali abbastanza definiti. Giustamente Claudio G. Fava riconduce la "maschera" di Tognazzi, quale si viene definendo all'inizio della sua maggiore fase, a quella che egli chiama "nordicità", riferendola e alle sue origini cremonesi e alla sempre più
netta identità che l'attore assumeva man mano che procedeva la sua filmografia: «Non a caso il suo peso d'attore s'è andato affermando concretamente negli anni Sessanta, quando la morsa di certe convenzioni "etniche" andava facendosi da un lato più
sensibile e dall'altro via via più
fievole nel cinema italiano: gli anni finali del "boom", gli anni di un certo estremo milanesismo industriale, in cui la asciutta, puntuale, "efficiente" voce padana di Tognazzi s'accordava assai bene con il suo incedere spicciativo e con il furbo volto semi-borghese e semi-contadinesco, così adatto a ricapitolare una intera generazione di "self-made-men" delle provincie settentrionali». Negli anni Cinquanta siamo però lontani dal suo vero traguardo artistico e si comprende bene perciò come la critica contemporanea vedesse in lui uno dei tanti esemplari di una comicità corriva, al confine con la volgarità vera e propria, senza particolari ambizioni, che aveva appunto le sue radici nel teatro minore, quello stesso peraltro cui il cinema di quegli anni attingeva generosamente, soprattutto per i ruoli di caratterista. Si comprende pure come le sue ascendenze artistiche costituissero il punto di riferimento obbligato per la valutazione che delle sue numerose presenze in tanti film veniva fatta dalla critica. La quale in generale era spesso disattenta, secondo le consuetudini critico-giornalistiche correnti, ma non tanto perché qualcuno non avesse modo di sottolinearne con particolare favore, come s'é accennato, l'apporto che egli dava a tante pellicole di routine: addirittura fin dal primo film, "I cadetti di Guascogna" (Mario Mattoli, 1950). Sulle pagine di Hollywood, rivista del dopoguerra, tipico esempio di periodico per "tifosi" di cinema, Renato Morazzani-Pietri, dopo aver deprecato le «cretinerie» di cui il film abbondava, sottolineava, accanto a quella di attori di ottimo nome, l'interpretazione di «due giovani comici che, sapientemente guidati [...] potrebbero riuscire a darci qualche cosa di veramente buono: alludiamo a Walter Chiari e Ugo Tognazzi che formano una coppia indovinata; [...] unicamente per loro alcune scene dei Cadetti sono tollerabili». E, come esempio ulteriore di tale attenzione critica ricordiamo che a proposito del film successivamente da lui interpretato, "La paura fa 90" (Giorgio Simonelli, 1951) E. Fecchi su "Intermezzo" del 31 dicembre 1951 notava che, nella generale mediocrità che lo caratterizzava, perfino Tognazzi ne restasse travolto, nonostante i «suoi bravi sforzi per emergere». In tale fase del suo cinema, l'attore è spesso in compagnia di Raimondo Vianello, sull'onda, evidentemente, del successo televisivo di "Un, due, tre", in cui l'humour discreto e compassato, proverbialmente attribuito alla maniera anglosassone, di Vianello ben si accordava, contrapponendosi, con la comicità "bassa" di Tognazzi: quella del tipico comico d'avanspettacolo, di cui l'attore avrebbe poi dato uno splendido ritratto nella figura del guitto schernito e deriso dopo il "numero", suo cavallo di battaglia, in "lo la conoscevo bene" (Antonio Pietrangeli, 1965). Oggi, in una prospettiva più
distaccata, e superando il fastidio che procurano il pressappochismo e la sciatteria di cui molti film brillanti del periodo serbano traccia, è possibile procedere anche ad una parziale riabilitazione di questo filone. Se ne assunse il compito Masolino d'Amico nel panorama del cinema comico italiano, dal dopoguerra a metà degli anni Settanta, sottolineando il fatto che, sebbene «talvolta stanchi, spesso ripetitivi. e sempre frettolosi, i film della coppia Tognazzi-Vianello non sono comunque fra i peggiori prodotti del periodo; checché scrivessero i recensori contemporanei col loro orrore della "volgarità", che vedevano dappertutto, i due comici sono soprattutto maestri dell'arte del non strafare, e porgono i loro scherzi non di rado risaputi con buon ritmo e con gradevole leggerezza». Ad ogni modo basta vedere o rivedere, quando sono trasmessi in TV, i film di questo periodo per accorgersi che la scarsa considerazione della critica per tali prodotti che fatalmente coinvolgeva i suoi interpreti aveva più
di una valida ragione: al punto da farci apparire sorprendente la sicurezza di alcuni critici, di cui si sono prima citati i giudizi, nell'individuare le qualità dell'attore. Quanto basta, perciò, per sfatare un luogo comune che, a proposito dei comici italiani (vedi il caso Totò. ripete spesso il fastidioso ritornello del "nemo propheta (... in vita)". Ugo Tognazzi, sotto questo aspetto ne è un caso evidente, avendo avuto subito e, nel corso della carriera quasi sempre, l'attenzione critica che la sua bravura e la sua istintiva acutezza nel ritrarre gli aspetti meno appariscenti dei personaggi di volta in volta interpretati meritavano. Certo, talvolta l'eredità negativa del decennio, durante il quale l'attore fece la sua lunga gavetta, condizionò in qualche misura la valutazione, che oggi possiamo dare con maggiore spregiudicatezza, della sua prima prova di rilievo nel citato film di Salce. Il quale rivela meriti che, al tempo della sua presentazione, non potevano essere subito riconosciuti. E questi vanno in gran parte attribuiti alla finezza con cui fu costruito il personaggio di Primo Arcovazzi, disegnato dall'attore cremonese sul filo di un'ironia tagliente che, in tempi come i nostri, inclini alla vendita di indulgenze, avrebbe molto da insegnare. Si sa che "Il federale" non ebbe una buona accoglienza da parte di quella critica che guardava con sospetto a rivisitazioni di periodi cruciali della storia recente del nostro paese fuori dai confini ortodossi, come accade appunto col film di Salce (si ricordi il caso analogo di "Tiro al piccione" di Giuliano Montaldo, 1961). Come esempio di tale atteggiamento potremmo ricordare quanto sul film (e sui suoi interpreti) scrisse Mino Argentieri, il quale dell'ammirevole confronto interpretativo svolto a pari merito dai due protagonisti, Georges Wilson e Ugo Tognazzi, trascura di segnalare la prova di quest'ultimo: «E d'intelligenza "Il Federale" è fin troppo sguarnito, egli scriveva, dal momento che, oltretutto, la sua carica umoristica si appoggia a una comicità meccanica e risaputa. [...] L'unico plauso che, in piena coscienza, sentiamo di poter rivolgere concerne Georges Wilson, un attore straordinariamente bravo, il quale nel nostro paese, secondo una triste consuetudine, è impiegato per animare magri filmetti». Oggi possiamo dire che con ammirevole intuizione Tognazzi, nel "duello" col mostro sacro della scena francese, si ritagliò uno "spazio" sgradevole e, come s'è accennato, controcorrente nel clima di generale rinascita "resistenziale" cinematografica dei primi anni Sessanta: quello del fascista ingenuamente fedele alla sua piccola e meschina mitologia nazionalista, nonostante il crollo delle illusioni conseguente alla fine della Repubblica di Salò e l'irrompere sulla scena di una nuova realtà politica. Interpretò il suo ruolo con un'autorevolezza da grande attore, che evidentemente nessuno sospettava in lui, considerata l'ipoteca del lungo apprendi stato che pesava sulle sue più
recenti prove. L'istinto e il talento favorirono il naturale controllo dei mezzi espressivi, con la sicurezza cui il lungo, sperimentato mestiere ormai acquisito doveva offrire gli strumenti necessari. Gli anni Sessanta aprono un ventennio circa di quella maturità artistica che farà di Ugo Tognazzi uno dei protagonisti della fioritura cinematografica avviata col primo dei due decenni. In tale arco di tempo l'egemonia della commedia all'italiana non gli preclude la possibilità di attraversare altri territori, talvolta contigui a tale genere, ma purtuttavia segnati da caratteri autonomi, a percorrere i quali soccorreva oltre al suo naturale talento un'intelligenza critica che avviava le sue interpretazioni verso obiettivi che anche i maggiori altri interpreti della commedia rivelarono di perseguire con altrettanta maestria. Su questa strada l'incontro con Marco Ferreri fu decisivo, quasi una naturale convergenza fra la sulfurea "melancholia" del regista e il versante "luceferino" dell'attore, quel risvolto losco e canaille, cioè, che Tognazzi sapeva così bene dissimulare dietro all'apparente bonomia di alcuni fra i suoi migliori personaggi e che gli proveniva da una sorta di quasi istintivo disincanto, di sconsolata convinzione del naturale cinismo e della altrettanto naturale corruttibilità dell'uomo. Tale atteggiamento trovò il suo maggiore risultato nel personaggio di Antonio Focaccia, protagonista di "La donna scimmia" (1963), il turpe impresario che vede nei corpi (e nelle anime) altrui soltanto occasioni di lucro. L'alta interpretazione che l'attore ne dà è evidentemente frutto della sua intelligenza, che qui ha modo di esplicarsi ad onta delle non rilevanti qualità di Ferreri come direttore di recitazione, al punto da rendere inimmaginabili alcuni suoi film senza il contributo determinante dell'attore. La critica restò ammirata e insieme sconcertata da questo secondo incontro dell'attore col regista, dopo il buon esito di "Una storia moderna: l'ape regina" (1963): sconcertata per la singolarità di un personaggio che aveva pochi esempi nel nostro cinema e cui la appena di poco precedente esperienza nella serie dei filmetti del decennio Cinquanta non sembrava dover offrire molti strumenti. Si deve forse a questo inconfessato pregiudizio l'ammissione della sua bravura, ma non nella maniera incondizionata che l'attore avrebbe meritato, da parte di un tipo di critica, come quella svolta sulle pagine del bimestrale Cinema Nuovo, non sempre attenta al lavoro attoriale: «Concordemente si è sottolineato che qui Tognazzi consegue il suo risultato più
maturo e stimolante: occorre però aggiungere che senza l'impostazione e la partecipazione fornita dalla Girardot (un'interpretazione di altissimo livello e davvero eccezionale) il personaggio di Antonio Focaccia potrebbe anche naufragare nelle secche dell'ovvietà». Le interpretazioni per i film di Ferreri rivelano in Tognazzi il versante del tutto singolare di un attore che nasce come comico e a lungo resta ancorato a tale modello. Un versante che, come s'è accennato, lo apparenta a pieni titoli a quelli che hanno legato il loro nome al cinema degli anni Sessanta, principalmente alla commedia all'italiana: caretterizzato da un'aria sorniona e insieme gaglioffa, da un'ironia che nasce dall'esperienza e dalla conseguente disillusione. A tale caratteristica si deve perciò il suo passaggio naturale e quasi insensibile dalla commedia di costume al dramma vero e proprio, come apparirà chiaro molti anni dopo con "La tragedia di un uomo ridicolo" (Bernardo Bertolucci, 1981). Intanto, gli anni Sessanta sono dominati dalla sua presenza nei maggiori film di Risi, Monicelli, Germi, Salce e altri. Il contrasto generazionale, punto di passaggio obbligato per un interprete che sapeva fondere mirabilmente tensioni esistenziali e modelli comportamentali tipici della nostra società, si manifesta in "La voglia matta" di Salce (1962). Nell'aderenza completa al personaggio centrale del film c'è qualcosa di pi
di un ritratto a tutto tondo del disagio, appunto esistenziale, di un quarantenne che avverte di essere "fuori ruolo": c'è anche un accenno rivelatore al lento sfaldamento dei modelli comportamentali della tradizione nell'impatto con nuovi costumi sessuali, esaltati dalla vitalità scomposta e naturale di una gioventù
che si stava avviando alla sua completa emancipazione dall'etica patriarcale fin allora dominante. Acutamente Giovanni Grazzini, a proposito dell'interpretazione che l'attore diede di un personaggio affine, quello di "La bambolona" di Franco Giraldi (1969), dice: «che bel ritratto d'italiano si farà mettendo insieme un giorno gli elementi sparsi di Tognazzi nei suoi film sui quarantenni». Quel senso di lieve spaesamento di fronte al consolidarsi di un nuovo ethos sociale, che molti italiani della stessa generazione dell'attore dovettero avvertire, si accorda spontaneamente con la "maschera" cinematografica del Tognazzi piccolo borghese, godereccio e "immorale", come apparve infatti al moralista Germi in una delle sue opere più
crudeli, appunto "L'immorale" (1967). In essa possiamo cogliere i sedimenti di un'inclinazione umana i cui risvolti politici, sociali, l'attore aveva così acutamente descritto nel personaggio del contadino in "La marcia su Roma" (Dino Risi, 1962), autentico archetipo della sottocultura del piccolo borghese italico, che l'attore avrebbe riproposto poi in alcuni dei suoi maggiori film. Come si vede il suo itinerario artistico rivela un ammirevole rigore interno, le molte sfaccettature delle sue interpretazioni si saldano in un circolo concluso, definendo così una delle carriere più
composite ma insieme più
intimamente unitarie di quante possano vantare i nostri maggiori interpreti cinematografici. Le variazioni che scaturiscono dal suo personaggio gli consentono di spaziare in territori eccentrici, rendono persuasive anche le sue ricognizioni entro confini che non gli apparterrebbero: si pensi, per tutti, all'insolito "Splendori e miserie di Madame Royale" (Vittorio Caprioli, 1970), la cui appendice pi
leggera si vedrà poi nei tre "vizietti" ("Il vizietto", 1978, "Il vizietto II", 1980, entrambi di Edouard Molinaro e "Matrimonio con vizietto", 1985, di Georges Lautner). In queste interpretazioni fuori del consueto, quella di Madame Royale del tutto difforme da certi modelli non soltanto interpretativi cui Tognazzi aveva riferito i suoi personaggi fin allora, ora generosamente giocata lungo il crinale che divide la commedia dal dramma che risalta l'anticonformismo dell'attore, il rischio della sgradevolezza e della deviazione dalle strade già da lui autorevolmente battute. Qui non c'è più
il ritratto dell'italiano medio di estrazione piccoloborghese col suo carico di pregiudizi e predilezioni, ma esattamente il suo contrario. Nel disegnare la marginalità sociale di questa figura l'attore ne esprime pure la dolente umanità, riscoperta al fondo di quella stravaganza di comportamento di cui la trilogia de "Il vizietto" fornirà una versione più
scanzonata. Ma anche in questa le convenzioni cui spesso si faceva ricorso nel disegnare il personaggio dell'omosessuale, soprattutto se si pensi alla tradizione del teatro minore, che era solito rappresentarlo in versione "checcha", sono tuttavia riscattate dalla misura e discrezione dell'interpretazione dell'attore, lontana perciò dai consueti stereotipi. Ma il risvolto amaro, persino cupo, dei personaggi di cui Tognazzi diede una lettura in chiave prevalentemente comica nella gran parte della sua filmografia, lo si coglie in un film appartenente alla sua piena maturità. Personaggio preannunciato, come s'è visto da alcuni film di Ferreri (si pensi soprattutto all'episodio del professore in "Controsesso", 1964) ma anche da quello di un film da lui stesso diretto ("Il fischio al naso", 1967) la cui fonte letteraria, un racconto di Dino Buzzati, dice molto su quanto di nuovo si stava muovendo in questo aspetto della sua personalità. E se la sua prima prova di regia provocò qualche sconcerto, positiva fu invece quella di attore: «Nonostante la scarsa originalità, "Il fischio al naso" fa onore alle ambizioni del neoregista, per alcune invenzioni azzeccate e per una rara pulizia. A Tognazzi, bravissimo come attore, fanno corona parenti e amici di famiglia, tra i quali il più
spiritoso è il regista Marco Ferreri». Una inquietudine, quella che traspare dal protagonista di questo film, maturata nel disagio esistenziale, il preannuncio e l'angoscia della morte nella figura del malato terminale, che trova un riscontro più
tardi in una pi
ampia inquietudine sociale, quella che traspare nel protagonista di "La tragedia di un uomo ridicolo", nel tratteggiare il quale Tognazzi, insignito della Palma d'oro a Cannes per il migliore attore, segna uno dei punti di massimo accostamento del suo personaggio alle drammatiche vicende che stavano scuotendo negli anni Settanta il nostro paese. Eccezionale esito di un attore partito da tutt'altre esperienze, dunque, come potrebbe apparire a una critica superficiale? Non si direbbe, dopo quanto s'è rilevato finora: anzi nella figura dell'industriale Primo Spaggiari, nel suo turpe cinismo, si coglie il "naturale" esito artistico di un lavoro d'attore sempre attento a cogliere il risvolto sordido e meschino del cosiddetto uomo medio, che ebbe il suo zenith con la commedia all'italiana. Bertolucci infatti disse a tal proposito che «Ugo è stato bravissimo, ha dato al personaggio uno spessore eccezionale, molto maggiore di quanto potessi aspettarmi». E la critica non fu da meno, sottolineando come la materia del film, attinta da un fatto di cronaca, e la sua complessità sarebbero «di per sé solo uno spunto senza la forza di penetrazione che la volontà del regista e la capacità di Tognazzi in esse hanno saputo infondere». E, ancora: «a dar corpo (alla complessità della realtà italiana rappresentata dal film, n.d.r.) tra la trasognata incredulità e la fisicità goffa e impacciata è un Tognazzi di rara bravura che la congenialità del ruolo non riesce a sminuire». Della tipologia sociale espressa dal cinema italiano nel solco di una tradizione che dal neorealismo si trasfuse nella commedia all'italiana e nelle sue propaggini estreme dei decenni successivi, Ugo Tognazzi rappresentò, al pari dei suoi contemporanei interpreti maggiori, tutte le manifestazioni, rischiarandone, come nel caso del film di Bertolucci, anche gli angoli più
oscuri. |
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