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STORIA DI TOGNAZZI TRA RICORDI E GIUDIZI |
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Aveva tutto per essere felice: una splendida residenza agreste, una moglie straordinaria, i figli belli e bravi, una supercucina dove svolgere quotidianamente i riti di quella metafora dell'esistenza che era per lui la gastronomia. |
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Aveva la stima degli intellettuali, la simpatia universale dei semplici e appeso al muro il diploma della Légion d'honneur per aver recitato Pirandello in francese a Parigi. Niente male per un ex fucinatore d'ilarità dell'avanspettacolo, cresciuto a cappuccini e viaggi in terza classe. È vero che il cinema, dopo oltre 140 film, gli stava voltando le spalle, ma in teatro chiamava popolo come pochi. Il suo ineffabile carisma, tra il mite e il sornione, era tale che la gente sarebbe accorsa a sentirlo recitare l'elenco telefonico. |
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Aveva proprio tutto: l'agiatezza, l'affetto di una cerchia fedele, la soddisfazione del cammino compiuto, un'intermittente residua curiosità di nuove avventure, un fisico ancora resistente alle fatiche dell'arte e della vita. Ma felice non era, tutt'altro. Qualcosa lo rodeva dentro e a tratti, improvvisamente, scoloriva la leggendaria ironia del suo sguardo. Che diventava vuoto, assente. Oppure allarmato, quasi implorante. |
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Intorno al tavolo da pranzo i familiari coglievano questi segnali e scambiavano impercettibili occhiate furtive. Sull'edonistico eremita di Velletri aleggiava l'incubo di una ciclica depressione. Un morbo che non si misura con il termometro, non si accerta con le radiografie e prove da laboratorio. Ma una malattia reale, qualcosa che intender non la può chi non la prova. |
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Forse Ugo sentiva la vita che gli sfuggiva come la sabbia dalla clessidra, si accorgeva con angoscia di parlare troppo spesso al passato, paventava che il meglio di tutto fosse ormai trascorso. |
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In questa vulnerabilità c'era ancora, come spesso nelle sue interpretazioni, il segno di un'originale contraddizione. Eroe di un vitalismo senza risparmio, tra Casanova e Rabelais, i suoi anni di fuoco erano stati quelli errabondi della rivista, da una piazza all'altra, circondato da stupende soubrettine e altri cani sciolti. |
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Lo conobbi nel 1950 in un avanspettacolo, a Bologna, Arena del Sole. Fantasista, dopo Renato Maddalena, quello che ballava sopra le botti. Era un giovanotto che odorava di torrone, semplice, vero: «Com'è simpatico, sembra uno di noi», diceva il pubblico, perché non usava i soliti attrezzi: che so, il tubino di Totò, la bombetta disastrata dei de Rege, la paglietta con la ferita di Nino Taranto. Appena entrato buttò via la giacca e in maniche di camicia mi pareva ancora pi
magro, come una bocca delusa dai troppi digiuni. Si esibì in qualche imitazione, intonò una buffa filastrocca: ballò con Maddalena e finì in platea tra le braccia di una ragazzona bolognese dalle tette vertiginose. Non fu difficile supporre che avrebbe fatto molta strada. In avanspettacolo rimase poco, il tempo per dimenticare Cremona, i salamini, le torri. |
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«Mah», così mi disse sempre, «Io quell'aria me la porto dietro: quel tanfo di cipria, di rimmel, di brustolini, di olio rancido che usciva dalle quinte, prima di rovesciarsi in platea». |
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Poi venne la rivista, quella con la passerella gloriosa e le ballerine dalla coscia ardita e così lunga da toccare le tonsille. Ma [...] Ugo, e come poteva essere altrimenti? Non poteva scordarsi del teatro [...] che era la sua segreta passione, il tarlo che lo inorgogliva («Pensa», mi raccontò una sera, «poter fare una commedia su Rossini. Recitare di fronte a tavole gigantesche, soffocate da schidionate di polli e selvaggina... »). |
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Il periodo della passerella influenzò il suo debutto nel cinema rivistaiolo avvenuto nel '50 con "I cadetti di Guascogna" di Mattoli («che veniam dalla Spagna e andiamo a Bologna... »), cui seguirono "Auguri e figli maschi" e "La paura fa 90" di Simonelli, tutti con Walter Chiari. Erano loro i comici nuovi, di bell'aspetto, senza nasi finti, pomelli rossi o pagliette, ma vestiti borghesi, non presi dalla strada, ma dagli uffici, satireggiavano i sogni proibiti e le nevrosi degli impiegati. |
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(Sul set de "I cadetti di Guascogna") Walter Chiari [...] non era neanche tanto gentile con lui, ma io ho avuto l'impressione su quella scena che Tognazzi avrebbe dominato Chiari, perché Chiari è un po' troppo intelligente, per un mestiere in cui non conta tanto l'intelligenza ma... Walter [...] non è abbastanza prudente da capire le regole richieste dal mestiere dell'attore... Tognazzi non era uno stinco di santo. Mi ricordo [...] che su una scena estremamente semplice, lui usciva da una porta e voleva che gli spiegassi tutto il substrato etico e sentimentale ecc. della storia: il suo, quello dell'attrice, quello della porta e quello della casa. Io no: «Tu pigli e esci, e basta; a me basta così». E lui si arrabbiò. |
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A Velletri, quando si trattò di leggere insieme la traduzione della commedia "M. Butterfly", lo scoprii attentissimo, esigente, perfino pignolo. Professava, con umiltà eccessiva, un'ignoranza totale: fingeva di non capire i discorsi non proprio limpidissimi, i giri di frase innaturali, le parole difficili. Volentieri ripeteva: «Solo se le cose le capisco io posso sperare di farle capire agli altri». E anche in seguito, durante le prove che culminarono nella "prima" in gennaio a Spoleto, continuò a ruminare il testo, a discuterlo, a spaccare il cappello in quattro. Perfino fuori orario, perfino a cena. Alle prese con una parte lunghissima come quella di René Gallimard, il diplomatico francese innamorato di un travestito cinese che è poi una spia, aveva qualche problema di memoria. Fatto strano in un interprete con tanta esperienza del vecchio varietà, dove recitavano a braccio, di rado si concedeva di improvvisare per coprire i buchi. Una volta lanciato, con la sua autorità, avrebbe potuto dire quello che voleva; ma preferiva fermarsi e riprendere la battuta dall'inizio. |
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La vera specialità di Ugo era appunto fingersi zuccone, tugnino, caprone. Non le Graniate missilistiche, in verticale, del suo amico Fantozzi. Ugo caricava a testa bassa, come un cinghiale. |
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Ebbe la fortuna di venir riscoperto da alcuni dei bravissimi registi di allora, che puntarono sulla sua eccezionale disponibilità, sullo "snaturale" della sua immagine schermica, sull'assoluta mancanza di volgarità che sapeva mantenere nelle situazioni scabrose. |
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Per anni, non troppo logorato da una quantità che raramente si risolveva in ripetitività, fornì variazioni a sorpresa di un personaggio in cui si rispecchiava l'italiano mutante in sincrono con la piccola patria strapaesana in procinto di diventare la quinta potenza industriale. Con tutto un catalogo di vizi, ampio perché i vizi divertono più
delle virtù, e qualche caratteristica positiva: il pragmatismo, la tolleranza, l'esuberanza, la contagiosa capacità di sorridere. Erano qualità che appartenevano anche all'uomo Tognazzi, apparentemente, ostentatamente, programmaticamente "senza qualità". |
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Amava i bisogni fisiologici primari, considerando la vita una pochade da servire con contorno di panna e burle. Nella lista non sofisticata delle sue preferenze metteva le donne, e dopo l'abbacchio alla scottadito [...] Fu il primo a portare alla ribalta lo stile nordista contro la dittatura sudista, tanto che diceva che sino a Firenze veniva considerato un comico, ma più
in giù non rideva nessuno. |
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L'esperienza de "La califfa" resta unica, perché con Ugo l'affrontammo portando sul set il piacere ironico, il gusto della parodia tipici della nostra terra, di cui ci eravamo nutriti negli atti anche minimi di un'intensa amicizia. A tavola, o camminando di notte, od oziando in casa mia e di Ugo a deridere il passare del tempo inventando bagole: da quelle private recite a due, nacque un linguaggio che era un po' un codice segreto e aveva della civiltà del Pò, le cadenze, le iterazioni. |
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Siamo di fronte al primo caso di divismo [...] che non si riallacci alla grande tradizione meridionale cui appartengono Totò, De Sica, Manfredi, Gassman stesso. [...] Tutti costoro portano sullo schemro l'Italia premoderna, nelle due fondamentali varianti, la sottoproletaria napoletana e la burocratico-impiegatizia romana [...]. Ben diversa fisionomia ha il personaggio del comico cremonese: partecipe di un contesto sociale ben definito, "uomo di principi", poco amante delle facezie e semmai piuttosto testone, la sua lentezza di riflessi e quella del contadino inurbato, deciso a non venir mai meno ai suoi obblighi verso il nuovo ambiente. Con Tognazzi assurge a livello di protagonista l'italiano del Nord, dignitoso, positivo, lavoratore [...] Tognazzi è l'uomo di mezza età, con un solido curriculum professionale alle spalle e un non meno robusto bagaglio di conformismi, pregiudizi, boria filistea. Ci troviamo insomma davanti a una esemplificazione di moderno uomo di massa. |
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Ugo Tognazzi ha molto pesato nella storia materiale di questo paese. Altri han fatto dei film, altri han lasciato delle battute, altri ancora han solo arraffato dei soldi. Tognazzi ha fatto un pezzetto della storia materiale di questo paese. [...] Tognazzi ha laicizzato l'Italia con "Un, due, tre", l'ha infilata nella 600 Fiat di "RoGoPaG" e poi in quella di "Vernissage" (episodio dei Mostri): due film che sono il doppio e il contrario ideologico uno dell'altro perché nessuno come Tognazzi sapeva fare un personaggio e il suo opposto. Il vizioso e il moralista, il donnaiolo e l'omosessuale, il vitalista e l'autodistruttivo, il dilapidatore e lo strozzino. Tognazzi ha fatto scoprire agli italiani il sesso e la psicanalisi, l'eros e la pulsione di morte. |
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Prima di girare [la sequenza finale de "La califfa", quando Ugo-Doberdò cade ucciso dai sicari terroristi, abbracciandosi lungamente al tronco di una quercia, come al corpo di una madre eterna, mi disse: «Io non so interpretare la morte. Adesso mi abbraccio alla quercia, forte, forte, così lo spettatore avrà la sensazione che la fine dell'avventura non mi ha spazzato via». |
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