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Il cinema era la mia passione di ragazzo. Avevo scritto un soggetto e venni a Roma, dove una sorella mi poteva ospitare, per cercare di venderlo. Non vendetti il mio progetto, ma dopo tre mesi avevo già cominciato a lavorare nell'ambiente. Mi unii da collaboratore volontario a un autore che doveva scrivere un film da una rubrica radiofonica. Dieci canzoni d'amore da salvare. Qui c'era uno sceneggiatore, anzi, il capo della squadra di sceneggiatori, che si chiamava Giuseppe Mangione e all'epoca era molto in voga. Mangione mi prese con sè, mi portò da Venturini, un produttore, e gli disse: «Fa' lavorare questo ragazzo». Perché allora, di lavoro ce n'era tanto che lo si dava via. A quel tempo neanche sapevo come si impaginasse tecnicamente un copione, e lì feci la mia scuola di guerra: in un anno, tre Salgari e due Carolina Invernizio, e, insomma, cominciai a imparare il mestiere. Dopo quel primo anno di apprendistato, incontrai Leo Benvenuti, che doveva fare "Le ragazze di San Frediano" con Tullio Pivelli, ma poi rimase solo. Benvenuti chiese a Pivelli: «Conosci qualcuno?». Per fare il film era indispensabile conoscere bene Firenze. Pivelli aveva scritto con me un cappa e spada. Così gli disse: «Mah, ci sarebbe questo De Bernardi». Da allora io e Benvenuti non ci siamo più
separati: abbiamo fatto insieme più di duecento film. Adesso Leo non c'è più
e io sono rimasto vedovo inconsolabile. Maledetto quel giorno. Lui a Roma e al cinema c'era arrivato per altre vie: era stato segretario di compagnie di varietà e di prosa, Gandusio, Macario... Io, invece, il varietà non l'ho fatto mai. Teatro sì, nel '95, una cosa pensata da Garinei per Johnny Dorelli e Loretta Goggi, quattro episodi scritti da autori di cinema: Age e Scarpelli, io e Leo, Iaia Fiastri, Gigi Magni. Andò anche molto bene. Garinei fece la regia e ci mise il titolo, Bobbi sa tutto, che doveva anche essere la prima battuta di ogni episodio. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta c'era molta comunicazione, molto passaggio, fra il teatro leggero e il cinema. Un ottimo esempio di questo scambio è proprio Ugo. La prima volta che ho lavorato con lui al cinema, Ugo continuava la sua carriera teatrale parallela, e in teatro l'avevo visto per la prima volta. Una volta mi disse: «Nel varietà, tutti gli altri hanno un marchio comico: la bombetta per Totò, il cilindro per Dapporto, il riccioletto per Macario; io, no. Vedi questa faccia? Io ho solo quella: È comica la mia faccia. La mostro, e il pubblico ride». Aveva una recitazione già molto cinematografica, perché era tutta in levare, non caricaturava e non strafaceva mai. Gli capitava invece di strafare in cucina. Ugo era cuoco, ma cuoco inventore, e improvvisava a seconda di quel che aveva in casa. Una volta che doveva smaltire un'enorme mortadellona, arrivò al punto di tagliarla a fette, impanarle e friggerle come cotolette alla milanese. Ci fu un periodo di cene tra noi amici a casa sua, le chiamavamo le ultime cene dei dodici apostoli, in cui dovevamo sperimentare questi suoi piatti di nuova invenzione. Una volta qualcuno gli aveva regalato della carne di balena, lui ce la servì alla livornese: il cacciucco di balena. Villaggio aveva stabilito una lista di voti: buono, commestibile, cagata, grande cagata, grandissima cagata, e alla fine della cena infierivamo su di lui senza pietà. Ci incontrammo per lavoro, certo, e poi diventammo amici incontrandoci anche fuori, nelle sue case, a Velletri, a Torvajanica. E da un certo momento in poi, amicizia e lavoro si fusero insieme. Nessuno avrebbe potuto dire dove finiva l'una e dove cominciava l'altro. Una questione d'onore, per esempio, fu una bella avventura. Partimmo per la Sardegna senza copione, con solo una scaletta in tasca. Si scriveva ogni giorno per il giorno dopo, e veniva bene! Un'altra volta andammo a scrivere "Il gatto" di Comencini a Punta Ala, solo io, Leo [Benvenuti] e Ugo. Allungavamo il copione perché lui cucinava, e ci preparava dei pranzi prelibati. Facevamo così: chiacchierando, inventavamo la scena insieme. Poi lui se ne andava in cucina, e noi scrivevamo. Comfort massimo: avevamo a disposizione una dependance dell'albergo, una villa che faceva parte del comprensorio e, nella rada, lo yacht di Sergio Leone. Con Ugo e gli altri Age e Scarpelli, Maccari, Scola, Monicelli, Risi, Sonego, eravamo una specie di famigliastra, un gruppo di amici che lavorano, scherzano, vivono insieme. Ci incontravamo nelle case, al bar, al Caffé Greco... Nelle trattorie, per esempio da Otello a via della Croce, dove ci incontravamo ogni settimana... Certe battute che poi andavano nei film, sarebbe impossibile dire chi le ha inventate. Le ha inventate il gruppo, ecco chi le ha inventate. Questo ambiente tra famiglia, paese, quartiere, banda di amici, era un'incubatrice perfetta, per il lavoro. Adesso, non c'è più. Non c'è più
neanche il lavoro, perché allora si facevano duecentocinquanta, trecento film all'anno, e oggi se ne fanno cinquanta. Allora cinque-seicento milioni di biglietti venduti, e oggi ottanta. "Amici miei" andò così. Avevamo scritto per Pietro Germi un copione di trecento pagine. Germi non avrebbe mai detto tagliamone sessanta, come poi fece Monicelli, perché a Germi gli entrava tutto. Magari si perdeva qualche effetto, ma nel quadro gli entrava sempre tutto, mai detto «questo è lungo», come invece a Monicelli capita spesso. Girano in modo diverso. Germi un'inquadratura molto piena, con una densità teatrale, profondità di campo e lunghi piani sequenza; Monicelli è più
asciutto e si affida di più
al montaggio, però non si perde un effetto, ed è più
rispettoso dei ritmi del copione, anche perché nasce come sceneggiatore. Poi, Germi si ammalò. «E adesso chi chiamiamo?» ci dicemmo. Chiamammo Mario (Monicelli). Germi voleva ambientare il film a Bologna, perché non credeva all'umorismo toscano, mentre la storia era toscana, toscanissima: tutte quelle storie erano state vissute sul serio da amici nostri fiorentini, e noi ci dicevamo: «Se si ride noi, vedrai che ride anche il pubblico». Mario, toscano anche lui, disse: «Ma perché Bologna? Toscana è, e Toscana deve restare». I personaggi e le burle, erano tutti modellati su persone e vicende reali. II Conte Mascetti, per esempio, il personaggio di Ugo, esisteva per davvero, e veramente aveva fatto un viaggio di nozze di due anni e mezzo con la moglie e l'orso al guinzaglio, mangiandosi il patrimonio suo, quello della moglie e anche quello dell'orso. È vera anche la storia che sembra più
finta, quella della banda di gangster che perseguita il vecchio e odioso pensionato. A Firenze, per un anno e mezzo, un barista, un notaio e un magazziniere tennero in piedi la burla ai danni di un vecchio come quello. Eh, erano proprio fetenti. Certo, il colore di fondo di "Amici miei" è nero, nerissimo. Mi hanno riportato che una bambina di nove o dieci anni, vedendo "Amici miei", si è spaventata e si è messa a piangere, e dal punto di vista suo ne aveva tutte le ragioni. Degli adulti che si comportano così, a pensarci bene, non sono per niente allegri. II tema della morte, della paura della morte e delle burle che la tengono a bada è il basso continuo del film. Una volta, mentre si inventava, Leo [Benvenuti] disse: «Ma come finisce questa storia?». E io risposi: «Uno muore». E infatti, come si ricorderà, il Perotti [Philippe Noiret] prima recita la Supercazzola al prete che lo vuole confessare, poi dice agli amici: «Levatevi da' coglioni che devo morire», si gira verso il muro e muore. No, non mi aspettavo un successo così enorme di "Amici miei", perché un film così non era stato fatto mai. Certo, era riuscito bene, ma ce ne sono tanti, di film ben riusciti che non hanno successo. Era un film molto italiano, certo, italianissimo. Tant'è vero che a New York, dove prendeva tantissime risate in sala, per un momento pensarono di rifarlo, ma poi rinunciarono, dicendo che no, non era americanizzabile. Ugo era davvero un grande, un grandissimo attore. Ho rivisto di recente, in una copia orripilante, "La stanza del Vescovo", che Leo e io sceneggiammo per Dino Risi dal romanzo di Piero Chiara. Tutto il racconto e tutto il film ruotano intorno all'Orimbelli, un personaggio che era difficilissimo interpretare senza farne una macchietta. L'Orimbelli è un personaggio assolutamente indecente, senza altre preoccupazioni che il suo immediato piacere, capace di tutto e buono a nulla, senza vergogna e senza spina dorsale, privo persino della dignità della cattiveria. Eppure, è a lui che devono andare tutto il nostro interesse e la nostra simpatia. E grazie a Ugo, è proprio questo che accade. Non ci deve aver fatto su dei gran ragionamenti, Ugo, perché mi disse: «Non lo dire a nessuno, ma l'Orimbelli me lo faccio tutto da fumato». E però, guardate che cosa ne ha fatto. Ne ha fatto quel che doveva essere, cioé un personaggio perfettamente sincero nella sua ipocrisia. L'Orimbelli di Ugo è un uomo totalmente fasullo che propone con totale sincerità i suoi bisogni, i suoi desideri, persino la sua fasullaggine. Perché Ugo era un attore capace d'essere insieme indecente e innocente, che è una combinazione di qualità più
rara dell'uranio. Ci sono attori capaci di essere magistralmente indecenti, uno, per esempio, è Giorgio Albertazzi, e altri capaci di essere innocenti, per esempio, Renato Pozzetto. Ma capaci di essere insieme innocenti e indecenti, be': a me non viene in mente altri che Ugo. E, come sempre, quando un attore viene, come Ugo, dalla tradizione del varietà e dunque della commedia dell'arte, nelle sue interpretazioni mette sempre qualcosa del personaggio che ha costruito intorno a se stesso. Anche nella vita, infatti, Ugo era un po' così. Con le donne, per esempio, era un bugiardo assoluto: una volta, avendo visto comparire all'orizzonte un'amica della moglie, mi ammollò una sua ragazza dicendomi: «Piero, fa' qualcosa!». Però, era talmente spontaneo da esser capace di parlare a una sua donna delle sue sofferenze d'amore per un'altra: e se la cavava, se la cavava sempre! Come faceva? Mah. Se la cavava perché per le donne era un uomo disarmante. Se la cavava perché era uno strano animale umano. La risposta più
vicina al vero, è che se la cavava perché era lui. L'ultima volta che lo vidi fu a Parigi, un incontro veramente casuale. Era un periodo che ci si vedeva meno, perché c'era anche un po' di stanca nel lavoro. Ero in breve vacanza con la mia famiglia e fu una delle mie figlie a indicarmelo: «Ma quello non è Tognazzi?». Stava comprando le sigarette dal tabaccaio che c'è accanto a Lipp, mi dava le spalle. Gli andai dietro e gli sparai: «Me lo farebbe un autografo, signor Bischeracci?». Si voltò, mi vide e urlò: «Non è possibile!». Stava bene, era contento perché aveva una bella prospettiva di lavoro, e stava andando a cena dall'amico Ferreri. Ci lasciammo con la promessa di rivederci presto a Roma, e forse prendemmo anche un appuntamento preciso. Una settimana dopo morì. Maledetto anche quel giorno! |
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