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BIOGRAFIA
  - UGO RACCONTA / Quattro chiacchiere sul cinema
 
     
 
     
 
Censura
 
     
  Succede così: prima la censura (12 laureati tra cui un magistrato) dice che il film si può programmare, magari chiede qualche taglietto qui e là. Poi basta che un tizio con la mania di erigersi a paladino della morale pubblica spedisca una denuncia a un procuratore. Il procuratore manda al cinema due carabinieri che si godono il film e poi scrivono un bel rapportino. Il procuratore lo legge e decide il sequestro. Ora i casi sono due: o non ha capito niente il magistrato o non hanno capito niente i 12 della censura.  
     
     
 
Comune senso del pudore
 
     
  Vorrei sapere cosa significa offendere il comune senso del pudore: vent'anni fa lo si offendeva mostrando la caviglia, oggi mostrando il pene. E poi che cosa vuol dire comune? Per un magistrato e per uno di borgata è molto diverso. Se il popolano fa la pipì contro il muro, con il coso fuori, non pensa di aver fatto un atto osceno. Il magistrato non piscia contro il muro mica per pudore ma perché è educato. Sa che deve andare al gabinetto. E allora perché il magistrato può denunciare il popolano maleducato?  
     
     
 
Film e politica
 
     
  Io sono un attore, non un rivoluzionario.  
     
     
 
Successo
 
     
  Cos'è il successo? Non lo so, lo sanno coloro che non l'hanno mai avuto. Non si fa in tempo a rendersene conto. E' così rapido.  
     
     
 
Disciplina dell'attore
 
     
  Ho notato che quando ho lavorato come un operaio disciplinato sotto la direzione di un regista, anche intelligente, e che per non avere problemi mi sono lasciato guidare dall'inizio alla fine, il film non è mai stato un grande successo, ho sempre avuto delle grandi delusioni. Per quanto mi riguarda sono convinto che devo poter dare qualcosa, sennò è inutile scegliermi. Ferreri mi lascia questo tipo di libertà ed è la condizione ideale per un attore come me. Posso interpretare disciplinatamente un personaggio come lo desidera un regista, tanto più che non ho nessun diritto e in certi casi è difficile cambiare la linea di un film; ma la mancanza di collaborazione non ha mai dato buoni risultati con me. Io sono per una libertà controllata dell'attore.  
     
     
 
Io e il personaggio
 
     
  Quando interpreto un personaggio che mi assomiglia, posso aggiungere senza difficoltà parecchi tic personali e i miei tic non sono identici a quelli degli altri; offro così al pubblico una dimensione media in cui si può riconoscere. Costruisco un personaggio identico a tutti ma che, nello stesso tempo, è Tognazzi. È un signore che cammina, si muove, ha un certo tipo di espressione quando deve rispondere a certe esigenze psicologiche o sentimentali, a certe situazioni buffe o commoventi: in quel momento, se piango, piango come piange Tognazzi nella vita e quindi, rifacendomi alla mia esperienza personale, posso aggiungere qualcosa alla costruzione del mio personaggio. Per esempio in un film che ho girato con Alberto Bevilacqua, "La Califfa", quando ero a letto ho chiesto al regista se non potevo dormire con una gamba fuori dalle coperte. Nella vita, anche se nella stanza fa molto freddo, dopo due minuti bisogna che io tiri fuori una gamba. Bevilacqua ha accettato la mia proposta: poteva essere un'invenzione e invece era una mia abitudine.  
     
     
 
Gli altri e il personaggio
 
     
  Normalmente, quando creo un personaggio, non faccio mai riferimento a una persona che ho osservato. Non ne sarei neanche capace, non me ne ricorderei. Imitare qualcuno, parlo come questo, mi comporto come quello, mi riuscirebbe difficilmente. Mi darebbe l'impressione di imitare e di limitare così la costruzione del personaggio.  
     
     
 
Dove trovo il personaggio
 
     
  In alcuni film (da me interpretati) il personaggio era addirittura dentro di me o per lo meno mi era sottobraccio. In altri, invece, personaggi ugualmente interessanti diventavano una composizione perché non mi appartenevano e allora era una scoperta, un'analisi di certi esempi di tipologia umana che erano lontanissimi da ciò che era la mia vita privata, le mie abitudini, ai fini di una costruzione interpretativa che risultasse la più approfondita possibile.  
     
     
 
Mediocrità 1
 
     
  Ciò che amo di più nel cinema, è la possibilità di analizzare, attraverso i miei personaggi, la mediocrità dell'uomo. [...] Io riconosco a me stesso molte caratteristiche della mediocrità, non tutte naturalmente; così le mie, unite a quelle due o tre che figurano permanentemente nel personaggio (di Emerenziano Paronzini nel film di Lattuada "Venga a prendere il caffè... da noi"), hanno fornito una sorta di annuario, di glossario della mediocrità umana. Sono sensibile alla mediocrità degli altri, questo mi è sempre servito quando ero attore comico di rivista: il mio personaggio aveva origine sempre nell'osservazione della mediocrità della vita e quindi degli uomini.  
     
     
 
Mediocrità 2
 
     
  Di fronte al compiacimento del difetto, l'arrangiarsi e la grande furberia che erano le caratteristiche dei personaggi di Sordi per esempio, io contrapponevo una ricerca personale ma che mi era in un certo senso "consegnata" attraverso le sceneggiature su un personaggio a volte sprovveduto, anche cinico, materialista e in certi casi persino volgare, se vogliamo, ma che all'intemo delle storie ha sempre avuto da parte mia non una giustificazione ma piuttosto un momento di attenzione psicologica. Nei miei personaggi non c'è un reale pentimento ma c'è la desolazione, la disperazione in certi casi, e comunque un rimanere attonito di fronte alla manifestazione dei propri difetti.  
     
     
 
Tradizione
 
     
  La tradizione del cinema italiano deriva pari pari dalla commedia dell'arte e da un certo tipo di cinema del dopoguerra, quello del neorealismo. La radice sanguigna dell'attore italiano è la comicità, è l'ironia, e il nostro cinema ha tramandato una generazione di comici: pensa all'influenza, per esempio, che ha avuto Totò. Si dice che gli attori comici italiani sono sempre gli stessi: io, Sordi, Manfredi, ai quali devi aggiungere Mastroianni e Gassman che pur essendo attori drammatici si sono imposti soprattutto per le loro interpretazioni comiche: si pensi alla svolta intervenuta con "I soliti ignoti" di Monicelli.  
     
     
 
Commedia all'italiana
 
     
  Credo che le fonti (della commedia all'italiana) siano proprio reperibili nel neorealismo: da questo modo di guardare con la macchina da presa una strada vera, delle persone reali e che da questo ci sia stato un passaggio anche per gli aspetti psicologici dei personaggi. "Guardie e ladri" ne è un esempio: un film all'aria aperta con una vicenda che riguarda la psicologia di certe cose tipicamente nostre, italiane. La commedia all'italiana fece propria l'abitudine di girare in ambienti veri, il che portò, oltre che a un'aderenza totale alla realtà, anche a una praticità ed economicità che gli studi non offrivano. Bisogna dire poi che il fatto di essere inseriti in un ambiente reale non poteva che giovare alla recitazione.  
     
     
 
Boom
 
     
  (Gli anni del boom hanno coinciso con la stagione migliore della commedia all'itallana) perché quando si sta bene, detto tra virgolette perché il boom era inteso come tale, è più facile scorgere le cose misere che ci appartengono e quindi guardare con indulgenza, in qualche caso, ma comunque con distacco ai nostri difetti e giocare su questo tema. Quando l'aspetto della vita diventa più pesante, più drammatico ecco che è più difficile riderci sopra.  
     
     
 
I paesi più avanzati
 
     
  Diciamo che da noi c'è una tradizione abbastanza profonda, che è quella della commedia dell'arte: Arlecchino, Pulcinella, sono questi i nostri avi. Da queste radici noi comici italiani traiamo l'improvvisazione, l'impeto, l'analisi della realtà, la comicità invece dell'umorismo. La comicità di stile americano, invece, si basa soprattutto sulla parodia e sullo humour anglosassone, è più costruita, più cerebrale. Diciamo la frase retorica: noi attori italiani lavoriamo con il cuore, gli altri con il cervello.  
     
     
 
Preparazione
 
     
  La preparazione manca, sì, ma dal punto di vista organizzativo. Mi spiego: il produttore italiano, quando ha in mano la carta buona da giocare, diciamo Tognazzi, oppure Gassman, Sordi, Manfredi, praticamente si sente a posto dal punto di vista commerciale. E allora organizza il film in quattro e quattrotto, all'insegna del pressappochismo, diciamolo pure, e della frettolosità: sì, perché il produttore ha il problema di fare uscire il film in fretta, per quella certa data, per ottobre, per Natale, per Pasqua. E questo purtroppo finisce per danneggiare la confezione del film.  
     
     
 
Improvvisazione
 
     
  Ma io non potrei assolutamente fare il film avendo in testa una parte mandata a memoria in modo scolastico. Io le mie prove migliori le do attraverso l'improvvisazione. Ho bisogno del contatto con la macchina da presa per potermi esprimere.  
     
     
 
Italiani all'estero
 
     
  Per quel che mi riguarda personalmente, posso dire di essere uno degli attori italiani più apprezzati in diversi Paesi: in Francia e in Germania, in molti Paesi dell'Est, persino in Giappone, in America del Sud... Non sono conosciuto nei Paesi di lingua anglosassone. E perché? Perché i nostri film sono doppiati, e gli americani non vogliono film doppiati. Dicono che "sono manipolati". Ma io ho il sospetto che la vera ragione sia un'altra: gli americani non vogliono concorrenti sul loro mercato cinematografico. E noi italiani potremmo essere concorrenti pericolosi. Mica sono fessi, gli americani.  
     
     
 
Luciano Salce
 
     
  Dentro di me covavo altre voghe. Con l'indicazione de "Il Federale" mi sembrò in quel momento di poter scoprire la strada giusta per iniziare quasi un nuovo mestiere. Ma naturalmente Broggi e Libassi col loro copione di Castellano e Pipolo cercarono di creare la solita sicura combinazione. Avevo anche un'altra proposta, ma siccome sentii che in quel testo mi si offriva un'occasione diversa, mi imposi affinché a dirigere e a coordinare questo film anche in fase di sceneggiatura intervenisse un regista ambizioso, giovane, con il quale poter parlare, perché sapevo già che cosa potevano predisporre in partenza i due produttori. Loro mi dicono: "Va bene, fai tu un nome!". Io conoscevo Salce perché aveva fatto la regia della mia ultima commedia musicale, "Uno scandalo per Lili", e mi sembrava una persona con cui si poteva avere un dialogo, e Salce aveva fatto come primo film un film alla Mattoli o alla Mastrocinque che si chiamava "Le pillole di Ercole". Insomma ho agito d'astuzia, perché se Salce avesse fatto prima un film più impegnativo e avessi mandato i due produttori a vederlo, mi avrebbero detto senz'altro di no, invece videro "Le pillole di Ercole", una vecchia pochade, e trovarono quel che loro cercavano, un film d'assoluta evasione, e dissero di sì. Allora vidi Salce e gli dissi: "Mi sembra che questa sia l'occasione per fare qualcosa di diverso, per avere un personaggio anziché un pretesto meccanico di commedia o parodia". Salce fu d'accordo, lavorò con Castellano e Pipolo, e si fece il film. Mentre giravo la parte finale, i produttori, attraverso vie non alla luce del sole, mi offrirono un'automobile a patto che aggiungessi delle battute comiche a quel finale, perché erano intimoriti dalla svolta che c'era nel film quando mi picchiano e quando viene fuori la morale della favola e l'essenza del personaggio. Non ricordo se l'automobile la ebbi, ma ricordo che però la battuta ce la misi, e quando Wilson mi dice: "Non hanno picchiato te, hanno picchiato la tua divisa", risposi, benché ammaccato di botte e in un contesto abbastanza serio: "Si, ma la divisa ce l'ho io". Allora le operazioni cinematografiche erano un pò più alla Brancaleone e i produttori avevano iniziato il film senza aver ancora la distribuzione. I due soci fecero una produzione con alcuni distributori, quelli che avrebbero dovuto prendere il film, e ricordo due distributori che alla fine mi presero da parte e mi dissero: "Tognazzi, tu devi fa' i film comici!". Broggi e Libassi dovettero legarsi all'ultimo momento a una distribuzione piccola proprio perché (e parlo de "Il Federale", non di "Porcile" di Pasolini!) non trovarono altro. Era un filmino, un quadretto rispetto al pannello cui in fondo si rifaceva, quello di "La grande guerra", ma con certe piacevolezze che valgono quelle del grande quadro. Alcuni critici poi vollero farlo apparire quasi qualunquista, perché si dava una giustificazione a questo povero ingenuo che invece rispecchiava tutti quegli italiani che in un periodo precedente se non si erano comportati così poco ci mancava, e di federali di quel genere che poi hanno continuato le loro belle carriere dopo la guerra non ne sono certo mancati.  
     
     
 
Antonio Pietrangeli
 
     
  Per "Io la conoscevo bene" mi dettero un Nastro d'argento. Quand'ero un giovane attore sorprendevo, e allora mi davano i nastri, da quando dicono che sono uno dei più grandi attori d'Europa, né nastri né grolle né altro; Pietrangeli era un buon regista, con una preparazione artigianale abbastanza forte, ed era nel cinema da tempo. Era molto tenace, ma come regista devo francamente dire che non era adatto a me. Perché era un regista da quattordici ciak. Se io ero andato bene e c'era un pelino nell'inquadratura, un'ultima comparsa che non era entrata nel momento giusto e di cui nessuno spettatore si sarebbe mai accorto, si ripeteva quattordici-quindici volte, e questo non è nel mio temperamento. Però questa sua tenacia e pignoleria, questo suo modo di girare garantendosi il meglio, faceva sì che i suoi film fossero rispetto alla media di qualche gradino più in alto. "Io la conoscevo bene" è un film indovinato, un bel ritratto di ragazza, con una sceneggiatura giusta e due o tre punti molto forti, e uno di questi è proprio il mio. Io non avrei dovuto fare quel personaggio, bensì quello dell'attore che veniva premiato. Fui io a scegliere l'altro, quello del guitto. Siccome la Sandrelli non era ancora una vedette, Pietrangeli mi aveva detto che voleva qualcuno di noi più affermati per il contorno, perché sennò il film non sarebbe riuscito a farlo. Era riuscito ad avere Manfredi e gli mancavo io, ma credo che per primo avesse interperato Sordi, il quale logicamente non accettò di fare un'apparizione così, e allora vennero da me. Avrei dovuto in fondo rappresentare me stesso, per quel tanto di popolare che ero già allora. Ma leggendo la sceneggiatura mi fissai sul personaggio dell'attore fallito. Avevo fatto per quindici anni il varietà ed era un personaggio che conoscevo, nel quale ho messo due o tre elementi della mia esperienza. Invece di fare il tip tap avrei dovuto cantare una canzoncina, feci il tip tap, fu un'idea mia, perché mi sembrava più efficace della canzoncina. La canzoncina avrebbe portato a uno sfottò del pubblico e basta, il tip tap invece, con il fatto di essere anziano e sentirmi male, avrebbe creato un rapporto più intenso, e reso più stridente il rapporto coi quattro stronzi della festa, avrebbe portato un'aria da piccolo melodramma.  
     
     
 
Pietro Germi
 
     
  Ne "L'immorale", per esempio, se Germi fosse stato più aperto nei confronti del tema trattato, se mi avesse lasciato un pò più di libertà, sarebbe potuto arrivare a un grande film anche se, così com'è, non è male e ho ricevuto dei complimenti per la mia interpretazione. Il mio personaggio era limitato. In effetti è un grande regista di attori e attrici non molto conosciuti. Ma con me, esigendo una perfetta fedeltà al testo e ai suoi insegnamenti ha realizzato un film un pò antiquato; non ha assolutamente ammesso che il personaggio potesse avere delle varianti.  
     
     
 
Alberto Lattuada
 
     
  "Venga a prendere il caffè... da noi" è stato un film di grande collaborazione col regista. Lattuada mi ha chiesto di aggiungere al personaggio certi modi di essere, certi tic; lui metteva una cosa, io ne mettevo un'altra, uno scambio continuo.  
     
     
 
Marco Ferreri
 
     
  Conosco Ferreri da quindici anni e abbiamo sempre lavorato insieme nello stesso modo. La prima volta, si trattava dell'"Ape regina", mi ha detto semplicemente: "Vuoi fare questo film? Si tratta di un uomo al quale la moglie fa fare l'amore fino a che ne muore". Raccontata da lui, la storia era molto semplice. Ho risposto di sì perché ho provato una simpatia e una fiducia immediata e anche una certa attrazione. Il film ha avuto successo, fu la prima volta che vinsi a Cannes, e mi ha permesso di entrare in un mondo cinematografico che amo. In tutti i film di Marco Ferreri, mentre si gira io mi rendo conto solo di quello che sto facendo, non del risultato globale cui giungera il personaggio. Ferreri non esige mai dall'attore quella che si può chiamare un'interpretazione definita; non è un regista che organizza anticipatamente una formulazione esterna; ti parla di un vestito di sensazioni che sono quelle che provano tutti gli individui. Non indica mai caratterizzazioni precise: non si sa mai se si deve essere cattivi, buoni, sornioni; non te lo chiede, né te lo dice. Ferreri mette in scena le sue storie non attraverso dei personaggi che ha fabbricato, ma appoggiandosi psicologicamente agli attori cui affida i ruoli; lascia che si esprimano secondo il loro vero stato d'animo individuale.  
     
     
 
Dino Risi, Mario Monicelli
 
     
  I film di Risi, quelli di Monicelli, altri ancora hanno una costruzione molto elaborata; all'interno di essa non si può abbattere nessuna parete, bisogna adattarsi a una costruzione molto precisa. Al contrario, in un film di Ferreri o di altri registi, si tratta di una casa all'interno della quale le pareti non sono ancora costruite: si costruisce l'appartamento come si desidera. Quando nella sceneggiatura è previsto tutto, quando si è definito un certo tipo di costruzione e questa costruzione è buona, è inutile cercare di andare oltre: si è meno incitati a fare di più e meglio.  
     
     
 
"Controsesso" e "Ro.Go.Pa.G"
 
     
  Due assaggini: quei piatti forniti dal ristoratore che dice: "Vi faccio assaggiare una cosa mia, per provare, può anche non piacere, però gli ingredienti sono tutti buoni, dipende dai gusti". E questo vale più per "Controsesso" che per Gregoretti. Il piatto di "Controsesso" è molto personalizzato. E poi Ferreri se ne frega se il piatto piaccia o non piaccia. Mentre quello di Gregoretti strizza l'occhio a un momento tipico delle vicende del nostro Paese: un assaggino sulla condizione dell'uomo alle prese con la società dei consumi: ancora sprovveduto, ingenuo di fronte a questi problemi.  
     
     
 
"La voglia matta"
 
     
  Be', "La voglia matta", se avessi potuto parlarne allora, nel '62, lo avrei definito un piatto nella nuova cucina italiana. Oggi è un piatto tradizionale conosciuto perché dopo, sullo stesso tema, si sono fatti molti film. Va visto sotto questo aspetto: i giovani che esprimono il loro desiderio di libertà, di non legarsi al carro delle tradizioni, del conformismo, delle abitudini della famiglia. E nel finale l'anziano prende coscienza della sconfitta e capisce che è arrivata l'ora del ripensamento. In questo senso è nuova cucina: perché anticipa i tempi.  
     
     
 
"La donna scimmia"
 
     
  Un buonissimo piatto libanese, con carne e grasso di montone. Potrebbe essere un cuscus: bisogna però essere buongustai.  
     
     
 
"Marcia nuziale"
 
     
  E' dello stesso genere. Ferreri butta lì delle pietanzine. Sono quattro sketch ma il film va giudicato nel risultato finale. Direi che sono quattro bocconcini che vanno graditi perché hanno tutti un'unica base che potrebbe essere della bottarga, che non è proprio caviale, ma sempre uova di pesce. Cosa, tutto sommato, raffinata.  
     
     
 
"Il magnifico cornuto"
 
     
  Un buon arrosto di vitello, all'italiana. Ben cucinato, ben cotto, morbido come carne e abbastanza gustoso. Potrei dire che forse il cuoco non ha indovinato completamente i contorni.  
     
     
 
"Il fischio al naso"
 
     
  È proprio come quando mi metto in cucina: non sperimento solo il piatto, ma anche me stesso, il mio carattere. Sarebbe fin troppo facile accontentare l'ospite cercando di scoprire quali sono i suoi gusti, le sue debolezze, e preparargli il piatto. Io invece ho un distacco completo: a costo di avere un giudizio negativo, il piatto lo propongo così come l'ho sentito e pensato. "Il fischio al naso" era il desiderio di preparare un piatto diverso da quelli a cui siamo abituati: sì anche qui si tratta di nuova cucina.  
     
     
 
"Una moglie americana"
 
     
  Un piatto esotico: ha le sue caratteristiche di un pranzo alla cinese, vale a dire tanti bocconcini, il tutto senza ossa, condito sobriamente. Nel film si trovano ingredienti sconosciuti, amalgamati ad altri. E soprattutto è un film scoperto di volta in volta perché il copione è stato scritto sul posto. Facevamo persino vacanza nell'attesa che lo sceneggiatore Azcona scrivesse la scena su qualcosa che lui aveva visto lì, sul luogo. Per esempio, quando dovevamo tornare a New York per poi tornare in Italia, mentre viaggiavamo su un treno, abbiamo interamente inventato una scena. C'era una ragazza negra e io ho proposto di fare l'italiano che dopo aver perso le speranze di trovare una donna, ormai si dichiara sconfitto. Ma quando vede questa negra comincia a darle un'occhiata e appena si accorge che la ragazza alza l'occhio dal libro per contraccambiare, immediatamente gli torna l'ottimismo, tipico del gallo italiano. Così a una frenata del treno, quando lei scende, lui le va dietro. Poi però si rende conto che è inutile, non sa neanche che cosa dirle, e rimane a metà strada. Anche perché io nel frattempo dovevo risalire sul treno che ripartiva: ecco, quello che si vede nel film è tutto vero, quasi "candid camera".  
     
     
 
"Il commissario Pepe"
 
     
  Secondo me è un piatto centrale del pranzo. Potrebbe essere uno spezzatino tipico regionale, veneto, se non altro perché l'azione si svolge a Vicenza. Il film è una indagine sulla interpretazione del sesso in provincia, su come viene gestito, nascosto, scoperto, con tutte le piccole magagne: ogni cosa in questo film è un pezzettino di carne.  
     
     
 
"La bambolona"
 
     
  Un altro piatto abbastanza forte. Potrei annoverarlo tra i brasati, perché dietro questo film c'è una marinatura di due giorni, e un buon brasato va marinato due giorni: il suo risultato a volte dipende molto dal vino più che dalla carne. Diciamo che il vino era un buon Barolo.  
     
     
 
"Splendori e miserie di Madame Royale"
 
     
  Piatto difficile, complicato. Mentre lo fai, c'è anche il sospetto che stia venendo male. Un piatto anche coraggioso. Se vogliamo è una unione di carne e di pesce, anche perché tratta dell'omosessualità.  
     
     
 
"La califfa"
 
     
  Un piatto raffinato. Anche se il film tratta di cose tipicamente italiane, si potrebbe paragonare a un buon Chateau-briand, come lo sanno fare i francesi, con una salsa sicuramente eccellente, gustosa, che è Romy Schneider.  
     
     
 
"Vogliamo i colonnelli"
 
     
  No, è una zuppa inglese-italiana. C'è tutto: i biscotti sono inzuppati nel liquore più forte possibile, fin troppo forse; e le creme sono almeno due o tre altrettanto violente e sostanziose.  
     
     
 
I registi di sinistra
 
     
  Ovvero tutti o quasi i registi qui da noi... Qui da noi, infatti, dall'altra parte non ne abbiamo nessuno o quasi... L'impegno non è una moda, d'accordo, ma c'è una divisione tra intenzione e condizioni... i registi di sinistra, tranne rare eccezioni, e una, l'ho detto, è Ferreri a cui basta respirare per essere diverso, per essere polemico, per essere aggressivo, i registi di sinistra sono gente che nei film vuole stare da una parte, ma nella vita sta nell'altra... Spesso nei personaggi contro cui più si accaniscono ritraggono se stessi, il loro essere irrimediabilmente borghesi, e basta... Ma mi perdo in un discorso che non spetta a me fare... Tognazzi, si sa, si interessa di cucina e di letto...  
     
     
 
...e Marco Ferreri
 
     
  A Ferreri gli basta respirare per essere contro certi soprusi, certe ipocrisie...  
     
     
 
"La grande bouffe"
 
     
  Certo girare con Ferreri è stato naturale, è sempre naturale... Ferreri ha il talento di farti apparire tutto naturale... Provi a riflettere sul cast... Mastroianni il divo internazionale, italiano, Piccoli il divo internazionale francese, Noiret il divo nazionale francese, Tognazzi il divo nazionale italiano... Quattro attori abituati ad avere il ruolo principale, a dominare... Eppure non c'è stata la minima controversia, non c'è stato il minimo tentativo di sopraffazione o di reazione... Di solito, se durante una scena a uno capita di dire una battuta di più, di improvvisare, deve aspettarsi che l'interlocutore ne dica a sua volta una di più... Ognuno vuole avere, esige di avere l'ultima parola, e così certe scene si prolungano all'infinito o quasi... Ne "La grande bouffe" abbiamo anche improvvisato, ma accettandoci, collaborando, non lottando, non contrastandoci... Io avevo già lavorato e rilavorato con Ferreri, ma Noiret no, ad esempio... Anche lui, comunque, si è immerso subito nell'atmosfera... Un'atmosfera assolutamente naturale... Ferreri ha lasciato la torta lì a decomporsi... Le cose accadevano come nel film o quasi... Le galline circolavano per casa e s'ubriacavano d'Armagnac... Ho passato un pomeriggio a contemplarne una sbronza marcia che girava ininterrottamente intorno a un albero... E un'altra accanto girava in senso contrario, rotazione e rivoluzione... Ognuno di noi, poi, aveva i suoi impegni, altri lavori che lo aspettavano... Così Ferreri lo faceva morire, e lo lasciava libero... I superstiti avevano l'impressione che fosse morto sul serio, si sentivano più soli... Non si trattava di recitare, si viveva la solitudine... Il primo ad andarsene è stato Mastroianni, poi è stato Piccoli, quando è toccato a me, Noiret era addirittura impressionato... Non morire, mi ha detto, io ho paura... Ferreri riesce in simili giochi di prestigio... Lui non ti rifà mai fare una scena... Se la scena non ti è riuscita, sa dove tagliare e ricucire... Ma è difficile che una scena non ti riesca con lui... "Il padrino", l'ho fatto per scherzare nel corso dell'ultima notte dell'anno. Ero in smoking con Marco Ferreri, Mastroianni e degli amici, eravamo all'Alcazar. Sono andato al bagno, ho preso due kleenex e li ho messi sotto le guance e poiché so fare "l'occhio da cane" e raddrizzare il mio naso con i muscoli come in certe espressioni di Marlon Brando, mi sono divertito a sparire e poi ritornare imitando "Il padrino": quel veglione somigliava davvero alla festa nel corso della quale Marlon Brando danza il valzer. Tutti hanno riso e Ferreri mi ha detto: "Questo te lo faccio fare nel film". Quell'imitazione è stata dunque girata, poiché in seguito si può sempre tagliare, che nel contesto generale sarebbe stata una cosa un po' troppo facile e leggera. Al contrario, e questa è anche una dimostrazione delle capacità artistiche e della sensibilità di Ferreri, l'imitazione s'inserisce perfettamente nel film, più come una cosa triste che come una cosa comica: si trova un senso di decadenza proprio in questa volontà di divertire gli altri e di divertirsi; molte persone, senza riuscirci sempre, cercano il divertimento nel grottesco, in una forma di esibizionismo piccolo borghese. Poiché il personaggio del Padrino è quello che è, la sequenza non ottiene solamente il facile effetto dell'imitazione, ma lascia trapelare una maschera tragica, una maschera di morte, sotto questa piccola trasformazione.  
     
     
 
Pubblico
 
     
  È davvero deprimente constatare che il pubblico preferisce un lavoro brutto. È curioso dirsi: è possibile che la gente apprezzi di più una cosa mediocre, brutta, vecchia, riscaldata, una ricetta trita e ritrita, dei temi vecchi. Invece, quando una cosa comincia a raggiungere la bellezza, e per bellezza intendo la ricerca di un tema nuovo, l'analisi di un piccolo problema anche se poi non è importantissimo, il pubblico dà l'impressione di fare un grande sforzo e comincia a dire sì solo quando questo stesso problema è diventato vecchio o è un'imitazione della cosa originale. È questo che oggi mi preoccupa.  
     
     
 
Critica
 
     
  La critica italiana ha poca dimestichezza con il cinema brillante, il cinema che diverte, e quindi ha avuto sempre un giudizio diminutivo nei suoi confronti; adesso sta cambiando ma dietro le sollecitazioni di un Woody Allen, dietro cioè degli esempi stranieri, dimenticando che ci sono stati dei film italiani altrettanto validi: un aggiornamento, quindi, ma sempre con ritardo. Per quanto mi riguarda so di non aver mai ricevuto un giudizio esatto nei miei confronti; sono stato considerato un attore promettente quando avevo ormai superato i quarantacinque anni e il massirno riconoscimento che ho ottenuto è stato quello di essere considerato in forma come se fossi un giocatore di calcio. I francesi non fanno distinzioni tra film brillante e film drammatico e hanno in gran considerazione l'attore comico, forse per delle loro tradizioni più teatrali che cinematografiche.  
     
     
 
"Amici miei"
 
     
  Perché sono così questi cinque sciaguratelli? Perché fuggono dalle paure di tutti. Scappano dalla vecchiaia, dalla morte, dalle malattie, dall'impotenza, da una realtà che si rifiutano di riconoscere. Patetici? È la parola giusta, anche se la loro goliardia sfrenata li porta a riassaporare il piacere della vita. Prendi il conte Mascetti. Teorizza l'infedeltà, è orgoglioso fino alla nevrosi, è meschino, talvolta ridicolo: ma in lui c'è una vitalità superiore. Tutto ciò che gli capita, e questo vale anche per me, è frutto soltanto del suo agire. Non c'entra la scalogna o la fortuna. Mascetti ha deciso di vivere così, e se ne infischia delle convenzioni, delle "responsabilità", delle buone maniere. È talmente innamorato della vita che, ridotto su una carrozzella per una paresi, troverà la voglia beffarda di partecipare a una gara di corsa per handicappati... Sono questi gli amici che mi piacerebbe avere.  
     
     
 
I comici e la crisi
 
     
  E quando c'è una crisi che va bene per i comici, cioè più l'Italia va male e più viene fuori gente che fa ridere. Non so se lo si è notato, questo è un periodo dove ormai di comici ce ne sono quattordici o quindici, in Italia, e se le cose andranno peggio ci troveremo con un'ltalia che va al macello piena di gente che fa ridere tutti, e moriremo tutti ridendo.  
 

 

 
 
     
   
   
 
 
 
LA VITA DI UGO
 
 
UGO RACCONTA
     
  Memorie, pensieri e considerazioni
     
  Psicougo
     
  Quattro chiacchiere sul cinema
     
  Il giovane Ugo
     
  Ricordi di Ugo
     
  Ugo e il calendario
 
 
DICONO DI LUI
 
 
LA CRITICA E UGO
 
 
UGO TOGNAZZI E RAIMONDO VIANELLO
 
     
 
 
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