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Procediamo con ordine. Passando sopra al fatto, ormai abbastanza noto, che mi chiamo Ugo Tognazzi, aggiungerò che sono nato a Cremona il 23 marzo 1922. Cremona, come voi sapete, è famosa per le tre "t": il Torrazzo, il torrone e, infine, per certi attributi femminili che mi guardo bene dal nominare. I miei concittadini, bontà loro, dicono che oggi, anno del Signore 1960, le "t" sono diventate quattro. (Tognazzi comincia per "t": non lo avevate capito?) |
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Non ero ancora nato, e già mio padre diceva: "Ne faremo un violinista". Mia madre, invece, desiderava un figlio sacerdote. Erano discussioni a non finire, finché non interveniva zia Olga, carattere piuttosto conciliante, che li faceva tacere. "Va bene, vuol dire che Ugo (sul nome erano tutti d'accordo) sarà un prete violinista." |
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Mai, insomma, a nessuno passò per la testa che potessi fare l'attore. Del resto, nei miei più giovani anni, avrei potuto essere utilizzato su un palcoscenico soltanto nel personaggio di un muto. Ma un muto che potesse tenersi sempre al fianco la madre, e davanti a un pubblico il più ristretto possibile. Perché ero timido, timidissimo: soffrivo del "complesso della folla" che nacque in me al momento in cui, per la prima volta, mia madre mi pose nella culla. E sapete il perché di questo complesso, di questa infantile diffidenza della folla? Perché, per un senso di precocissima percezione, avvertivo il contrasto esistente tra le parole ammirative dei molti parenti e amici di casa che si curvavano a osservarmi, e l'espressione di disgusto per la mia bruttezza che intravedevo nel sottofondo del loro sguardo. |
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Tutto, quindi, avrei potuto fare fuorché l'attore. E se è vero che, ancora piccolissimo, salì su un palcoscenico (fu al teatro Donizetti di Bergamo, in uno spettacolo di bambini), è altrettanto vero che quella mia partecipazione non fu assolutamente rivelatrice. Anzi, visto che non c'era da cavarne assolutamente nulla, il regista dello spettacolo mi relegò in fondo al palcoscenico in funzione di coro. Per mia somma vergogna, fu invece applauditissima mia sorella Ines che aveva due anni (io ne avevo due di più) che si incaricò di tenere alto l'onore della famiglia. "Diventerà una grande attrice", dissero in molti senza degnarmi di uno sguardo. Naturalmente, come quasi sempre avviene, quelle previsioni andarono a carte quarantotto: perché mentre mia sorella Ines rinunciava a qualsiasi ambizione artistica in cambio di un marito e di cinque figli, chi doveva diventare attore (non grande, per carità: facciamo medio) era proprio l'oscuro corista di quell'ormai lontano spettacolo. |
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Otto anni più tardi, dato l'addio per sempre a una detestabile pettinatura con la frangetta che mia zia, chissà perché, considerava estremamente attraente, tornai su un palcoscenico ma, questa volta, in veste di protagonista. Fu a Carbonara, un paese della Folgaria, dove andavamo ogni anno a trascorrere le vacanze. Con la regia del parroco (e il sagrestano nella buca del suggeritore) recitai a beneficio dei poveri del paese in una commedia che si intitolava "Il viaggio di Pipino". Come sia andata quella volta non so dirvelo, sinceramente: so soltanto che il pubblico rise rumorosamente durante la "scena madre" del secondo atto. Ma ancora oggi mi viene il dubbio che non fosse per il mio talento di attore comico ma in seguito a uno strappo nei pantaloni che rivelò le mie mutandine. |
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Quella vacanza a Carbonara va ricordata anche per un altro fatto: per l'incontro con una zingara che volle esplorare anche la mia mano dopo avere letto attentamente quella di mio padre. "Tu hai molti sogni per la testa" mi disse, "è una fortuna sfacciata che ti consentirà di raggiungerli tutti. Ma appena li avrai raggiunti, ti sfuggiranno." |
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Torniamo indietro: alle vacanze di Carbonara. Finite le quali, mio padre (che riusciva, non so come, a trovare ancora qualcuno disposto a cedere alle sue lusinghe di assicuratore) si ammalò piuttosto seriamente: la qual cosa ebbe anche spiacevoli ripercussioni finanziarie, poiché la malattia andò avanti per molto tempo. È a questo punto che compare ufficialmente in scena la zia Olga. |
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Zia Olga è un tipo straordinario che conosce a memoria tutte le mie riviste: non mancherebbe a una mia "prima" neppure se avesse quaranta gradi di febbre. Inoltre, fatto importante, è la moglie di quello zio Marco cui mi rivolsi, nel'43, con la fermissima intenzione di fare l'attore. Ebbene: poche ore dopo, lo zio mi trascinava al teatro Puccini di Milano, a quella serata del debuttante che costituì il punto di partenza della mia carriera. Mia zia era soprattutto una donna comprensiva. Per nulla spaventata che all'età di undici anni per poco non restassi sepolto sotto un muricciolo pericolante che mi ero divertito con alcuni amici a far crollare, mi consentì di dedicarmi all'unica e grande passione dei miei anni giovanili: il calcio. Anche perché, quando entravo in campo, la mia timidezza spariva di colpo: e se poi mi affidavano una porta da custodire, ero il ragazzo più felice del mondo. Fu appunto producendomi come portiere che ebbi i primi applausi convinti della mia vita: mi chiamavano "lo Zamora di porta Vittoria" (Zamora fu un famoso portiere spagnolo). |
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Ma a un campeggio Dux, aggredendo con troppo impeto un muro durante un percorso di guerra, mi massacrai un ginocchio. Volli continuare ad ogni costo, il che mi valse non soltanto una medaglietta di bronzo e una motivazione delle quali ero fierissimo, ma anche una sinovite con complicazioni al menisco che mi costrinse per quattro mesi ad una ingessatura. Dopo di ché, addio Zamora di porta Vittoria. E siccome non ero più un ragazzino, e qualcosa dovevo pur fare per contribuire al bilancio domestico, mi impiegai come contabile in una fabbrica di salumi. |
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Mi fanno ridere gli esistenzialisti quando parlano di angoscia, di nausea e di altra robetta del genere. Cosa avrei dovuto dire io, costretto a lunghe ore di quasi assoluta immobilità dietro una scrivania? In un lugubre ufficio e alle prese con un incomprensibile registro di partita doppia? Roba da farmi venire le vertigini: chiudevo gli occhi e vedevo in ogni angolo palloni da parare, e gente che mi batteva le mani. Poi, non avevo mai una lira in tasca ed ero sempre timidissimo: due ragioni assolutamente valide perché non avessi mai messo piede, dopo otto mesi, nelle sale del dopolavoro, dove si ballava anche due giorni alla settimana. Per entrare, ci volevano cinque lire (quando mai potevo disporre di una somma così ingente?), e quand'anche le avessi avute, dove mai avrei trovato il coraggio di invitare una ragazza a fare un giro di tango o di valzer? Dicevo: "Questa sera è la volta buona", arrivavo testa alta e petto in fuori davanti all'ingresso del dopolavoro, poi facevo "dietro-front" e andavo al cinema. Solo. |
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Finché, un giorno, mi capitò di leggere un comunicato del dopolavoro che era alla ricerca, per la filodrammatica locale, di un giovane attore disposto a ricoprire ruoli di "generico". Oltre alla possibilità di prendere un primo contatto con il pubblico, sarebbe stata un'eccellente occasione per avere l'accesso al dopolavoro in un qualsiasi momento senza dover sborsare quelle difficili cinque lire. Ebbene: la filodrammatica compì il miracolo. Infatti, appena entrato in palcoscenico la mia timidezza spariva di colpo. Mi sembrava di essere tornato lo Zamora di porta Vittoria. L'esordio avvenne in una conunedia di Cenzato. Avrei dovuto interpretare una piccola parte di generico, ma all'ultimo momento un attore si ammalò (sembra un segno del destino: quanti attori hanno cominciato a farsi conoscere in questa maniera?) e così mi fecero interpretare due parti: quella di un giovanotto, al primo atto, e di un ottuagenario, al terzo. Fui molto applaudito tutte e due le volte, ma la mia soddisfazione fu ancora maggiore quando mi resi conto che nessuno, tra il pubblico, aveva capito che si trattava della stessa persona. |
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Naturalmente, quella sera stessa, entrai nella sala da ballo. Quella specie di don Giovanni che avevo interpretato sino a un paio di ore prima, mi aveva messo addosso un coraggio da leone. Era la primavera del '39, e mentre la filodrammatica mi affidava diverse commedie, da "Il ladro sono io" a "La nemica" e "Addio giovinezza", io preparavo per mio conto, studiando intonazioni e atteggiamenti davanti allo specchio, la mia prima macchietta comica. Avrebbe dovuto essere il mio asso nella manica in uno spettacolo di varietà annunciato per l'estate. Per provare, mi chiudevo in camera, a doppio giro di chiave, mai più immaginando che mia madre mi stava spiando dietro il buco della serratura. Io cercavo di rifare Dapporto, Macario e Fanfulla, aggiungendo qualcosa di mio per caratterizzare il personaggio che avrebbe dovuto venime fuori. |
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Si trattava, ora, di uscire da Cremona per cercare un pubblico più vasto. Ebbene: uscii da Cremona, ma per vestire una divisa. Mi chiamarono, infatti, alle armi destinandomi alla Marina. Da allora, sono trascorsi ventunanni, ma non ho ancora capito perché avessero deciso di condurre verso il mare (anche se, come si diceva a quei tempi, nel mare c'era il nostro destino) la recluta Tognazzi Ugo, nata a Cremona, e quindi nel più abbondante entroterra. Ma non mi fecero navigare: debbo dire "purtroppo" perché, trasferito a La Spezia e assegnato agli uffici del comando, mi ritrovai tra le scartoffie. Non era la partita doppia del salumificio, ma si trattava pur sempre di incartamenti e di registri. |
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Ma ancora una volta trovai rifugio nell'organizzazione di alcuni spettacoli, sino a quando capitò a La Spezia Lucio Ardenzi (oggi organizzatore teatrale, ma a quei tempi cantante assai popolare), il quale aveva organizzato uno spettacolo per le Forze Armate che veniva integrato da alcuni sketch interpretati dagli stessi marinai. Successo a parte, l'impresario mi allungava settanta lire ogni sera: una cifra folle per un povero marinaio che fumava le Milit. Mi sembrava di essere Onassis. Di quel periodo, ricordo particolarmente un episodio. Eravamo nel '42, e La Spezia era squassata dai bombardamenti. Quella sera, dovevamo recitare a pochi chilometri dalla città, ma proprio poche ore prima una formazione di Hurricane aveva lasciato il segno un pò dappertutto. Noi stessi eravamo rimasti indecisi, sino all'ultimo momento, se andare o no in scena. Quando cominciò lo spettacolo, in sala c'erano quattordici persone: non una di più, né una di meno. Non erano molte, siamo d'accordo, ma in quelle condizioni cosa si poteva pretendere? |
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Tutto andò benissimo sino alla metà del secondo tempo, poi, mentre stavo per entrare in scena, le sirene d'allarme fecero sentire il loro lugubre ululato. Gli spettatori se la squagliarono immediatamente: tutti, meno uno (incosciente o stanco della vita?) che rimase tranquillamente al suo posto. Stando tra le quinte, lo vedevo impassibile, seduto in seconda fila, e forse meravigliato perché ancora non avevo cominciato il mio sketch. Ricordo che il batterista mi prese per un braccio: "'Su, muoviti. Si può sapere cosa stai facendo?"'. Già, cosa stavo a fare? Feci per allontanarmi, ma il mio sguardo corse ancora una volta allo spettatore che era sempre là, immobile, come se quell'iradiddio di bombardamento (sì, avevano già cominciato a sganciare, e un paio di bombe erano cadute a un centinaio di metri) non lo riguardasse sino al termine del mio numero, mentre il teatro tremava come un castello di carta. Alla fine, ero bagnato di sudore, ma non so dirvi l'effetto che mi fece quell'unico applauso. So soltanto che non l'ho ancora dimenticato. |
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Dopo l'8 settembre, tornai a Cremona con il solito problema da risolvere. L'unica soluzione che trovai fu riprendere il mio impiego in un noto salumificio della città. Un giorno, il mio capoufficio mi mandò a chiamare per rimproverarmi non ricordo bene se la scarsa assiduità al lavoro o un'altrettanto scarsa diligenza nel controllare certe cifre. Invece di chinare il capo e far brillare, all'occorrenza, un paio di contrite lacrimucce, lo guardai soavemente, cantarellando: "La sua bocca è tanto bella / salamino e mortadella / il suo sguardo par divino / mortadella e salamino". Il capoufficio impallidì, e rispondendomi che il salumificio cui aveva l'onore di appartenere non era un'accademia letteraria, mi indicò bruscamente la porta. Quell'uomo non mi aveva compreso. |
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Decisi allora di fare le valigie e di partire per Milano dove, possedendo un congruo quantitativo di zii, avrei potuto, facendomi invitare a pranzo ora dall'uno e ora dall'altro, risolvere brillantemente l'importante problema dei pasti. Cominciai con lo zio Marco, al quale esposi subito il mio travaglio artistico. La fortuna era dalla mia parte (la solita fortuna "sfacciata", secondo le opinioni della zingara), poiché non solo trovai da parte dello zio un terreno decisamente favorevole, ma anche l'immediata possibilità di un tentativo. Quella sera stessa, infatti, era stato organizzato al teatro Puccini uno spettacolo per dilettanti. Le iscrizioni erano già chiuse ma zio Marco riuscì ugualmente a farmi ammettere fuori concorso. Ricordo quera sera come se fosse ieri: un teatro paurosamente gremito (per dovere di cronaca, aggiungerò che l'ingresso era gratuito) e la buona zia Olga che si era avventurata stoicamente nel carnaio della galleria pur di non perdere la possibilità di applaudirmi. |
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"E adesso" disse il presentatore, "un giovane comico cremonese, il signor Ugo Tognazzi, vi presenterà fuori concorso alcune macchiette del suo repertorio." Raccontai alcune barzellette piuttosto "pesanti", feci la parodia di Gandusio, di Totò e di Dapporto e quindi improvvisai una di quelle chiacchierate con il pubblico che poi sono diventate una mia caratteristica. Ricordo, tra l'altro, che parlai delle "cose che mi fanno rabbia" in un monologo che cominciava in questa maniera: «A me, per esempio, fanno rabbia da morire i sarti quando ti dicono che nella giacca, lì, a destra, c'è un piccolo difettuccio. E, trac, ti strappano via tutta la manica. E i parrucchieri? Quando hanno finito, vengono con lo specchietto e ti domandano se va bene. E tu, per vigliaccheria, dici sempre di sì, anche se ti hanno pelato come una scimmia e rovinato per sempre le basette. Ti domandano se vuoi lavarti la testa e tu rispondi di no, facendo la figura dello sporcaccione; se vuoi la frizione o la brillantina o il profumo, e tu continui a rispondere di no, diventando di fronte a tutti uno spilorcio nauseante. Poi, quando stai per svenire dalla vergogna, accetti di fare l'impacco caldo, e devi sentirti sulla faccia un panno fradicio e disgustoso che sa di minestra di caserma. È una rabbia da diventare matti, come quella che ti prende quando cammini per la strada con la ragazza, non ti accorgi che si è fermata a guardare una vetrina e, credendo di averla ancora vicina, prendi sottobraccio un signore con la barba e lo chiami 'tesoro mio'». |
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Fu un grosso successo, con urlanti richieste di bis e ben nove chiamate al proscenio, che preoccupò il presentatore perché ogni esibizione era stata calcolata con l'orologio alla mano. Lo spettacolo era appena terminato quando l'impresario ed ex cantante Cluberti venne a trovarmi in camerino per offrirmi trecento lire al giorno in una compagnia di avanspettacolo. |
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Dissi subito di sì, e ci rimasi male pochi giomi dopo quando mi proposero, per mille lire al giomo, di andare con Wanda Osiris che, avendo dovuto rinunciare a Carlo Dapporto, cercava un giovane comico. Pensai che un'occasione così non si sarebbe più ripetuta e decisi, quindi, di affrontare Cluberti per dirgli chiaro e tondo quali erano le mie intenzioni. L'incontro, anzi lo scontro, fu piuttosto vivace: ci rimisi un dente, ma in compenso guadagnai la partita. |
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La guadagnai doppiamente perché non avevo assolutamente nulla da fare. Infatti, soprattutto perché gli effetti della guerra si facevano sentire sempre di più, la compagnia non riuscì mai a debuttare. Così arrivammo al 25 aprile, una data memorabile anche perché il mio impresario finì dentro e io ci rimisi le mie mille lire giornaliere. Normalizzatasi la situazione, Dapporto tornò con Wanda Osiris, e io rimasi a piedi: tuttavia non per molto tempo perché, anche se la mia notorietà restava legata unicamente al mio esordio del Puccini, mi offrirono di interpretare, alla fine di quello stesso '45, una rivista, con la soubrette Erica Sandri, che si intitolava "Viva le donne". |
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La prima rappresentazione milanese fu piuttosto tempestosa: esclusivamente per colpa di quell'incosciente di Tognazzi che, poco prima di entrare in scena, si era scolato un fiasco di vino, generoso omaggio dello zio Demetrio. Volevo farmi un po' di coraggio, non calcolando invece che la sbronza mi avrebbe tagliato le gambe soprattutto al momento dell'anti-finale. (Adesso non si fa quasi più, ma sino a qualche anno fa, mentre i macchinisti preparavano il grande quadro finale, il comico arrivava in passerella per fare un lungo discorsino, il più divertente possibile.) Quella sera, di passerelle ne vedevo due: non ricordavo più una parola di quello che dovevo dire, e per giunta ero preoccupatissimo perché avevo dimenticato di indossare il gilét del frac, e non volevo che il pubblico se ne accorgesse. Non so ancora come feci ad arrivare sino in fondo. |
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Dopo un intermezzo, non troppo fortunato, con Polvere di Broadway (la soubrette era Elena Giusti), guadagnai rapidamente terreno nel '48 con "Paradiso per tutti", una rivista che era partita pressoché inosservata, ma che ebbe invece un grosso successo. Tra le subrettine c'era anche Lauretta Masiero. La stagione successiva interpretai "Castellinaria" con Lia Cortese, poi per un triennio fui con Elena Giusti ("Dove vai se il cavallo non ce l'hai?", "Ciao, fantasma!" e "Barbanera, bel tempo si spera"). Il resto, da "Passo doppio" con Dorian Gray, è cronaca di oggi. |
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