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Con Ugo eravamo molto amici, amici veri. Anche la cadenza padana del suo linguaggio è nata dalle nostre conversazioni. L'abbiamo messa a punto insieme. Sul set era straordinario. Per "La califfa" si è fatto condurre con estrema docilità verso il registro drammatico. In Questa specie d'amore si assunse una fatica enorme, che avrebbe stroncato qualsiasi attore, quella di interpretare tre ruoli. Lui non solo lo fece ma riuscì ad essere psicologicamente credibile e diverso in ognuno. Fu molto collaborativo e dolce. Non è vero che era un attore scorbutico. Lo era forse quando avvertiva una mancanza di spessore in chi lo dirigeva. I ruoli di "Questa specie di amore" se li portò dietro per molto tempo. Per interpretare Moliére, a Parigi, si fece proiettare più volte le parti del mio film in cui faceva il ruolo del vecchio. Ci frequentammo fino all'ultimo. Ho un ricordo molto bello di un momento poco prima della sua scomparsa. Venne a Parigi ad un dibattito tenutosi al Beaubourg sulla mia opera e lesse con trasporto molte cose che avevo scritto. Ecco, se c'è una cosa che temo è che di Ugo venga trasmesso un ricordo schematico, unidimensionale. Che si tramandi la sua figura come legata solamente al periodo della commedia all'italiana. Ugo Tognazzi aveva invece molte dimensioni. Da buon cremonese, da buon padano, seppe costruire il suo percorso passo dopo passo, attraverso cose diversissime, e arrivare fino ad essere acclamato in Francia, a teatro. È l'attore meno convenzionale che l'Italia abbia avuto nel dopoguerra. E fu un uomo solo, assetato d'amore. Forse era un ingordo, come lo sono tutti gli uomini soli. Sono sicuro che Parma saprà ricordarlo con amore e in modo da esorcizzare la frettolosità, la sommarietà con cui troppe volte è stato rievocato. |
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