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PUPI AVATI |
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Tognazzi era un uomo di grande, innocente indecenza, o se si vuole di grande, indecente innocenza. Non ci siamo insegnati un gran che, noi due, ma una cosa lui a me l'ha insegnata: quando incontri una persona che non conosci, chi rompe il ghiaccio deve sempre esordire con una dichiarazione di debolezza. Un esempio? Be', Ugo poteva iniziare così la conversazione con uno sconosciuto: «Ieri sera sono finalmente riuscito a combinare con quella, e sai che c'è? Ho fatto fiasco!». Con aperture come questa, aprendo la guardia a questo modo, chiedeva all'altro di fare altrettanto, e saltava a pie' pari tutti i noiosi preliminari convenzionali, tutto l'inutile reciproco atteggiarsi e mascherarsi che sembra impossibile evitare e che ci fa sciupare tanto tempo e tanta vita. Se l'altro rispondeva a tono, in un attimo si inaugurava la possibilità di un'amicizia, di una complicità, di un rapporto umano vero. Ma se l'altro si irrigidiva e si chiudeva, che Dio lo aiutasse! Diventava il suo nemico esistenziale, e contro di lui ogni mezzo di guerra era permesso. E siccome nelle troupe c'è sempre l'uno e l'altro tipo umano, dove c'era Ugo c'erano sempre due campi, i nostri e i loro, gli amici e i nemici di Ugo, e della vita. |
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"La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone" è il primo dei due film che ho girato con Ugo, ma non è il mio primo film. Il primo l'ho fatto nel '68, seguendo una via diversa da quella del cinema ufficiale. E' andata così. C'è un gruppo di ragazzi bolognesi che si affacciano sulla trentina, che hanno tentato di non prendere la strada delle solite professioni borghesi e non ci sono riusciti: io, per esempio, avevo tentato di fare musica jazz, e avevo fallito. Questo gruppo di ragazzi, delusi ma che non hanno ancora rinunciato, si mette a sognare insieme il sogno del cinema. Fin qui, niente di nuovo o di strano. Quel che c'è di nuovo e strano è che questo gruppo di ragazzi incontra un finanziatore, anzi un mecenate. Un importante costruttore bolognese decide di aiutarci dopo che per quattro anni avevo cercato, per le normali vie, una produzione romana: quattro anni di lettere, telefonate, viaggi, eccetera. Risposte, zero; risultati, zero. Nel momento più buio, il miracolo. Salta fuori questo ricco imprenditore che non vuole si sappia chi è, si fa chiamare Mister X, e ci finanzia il progetto. (Io poi lo sapevo, chi era: era, anzi è, Carmine Domenico Rizzo, persona fantastica, un angelo dei film di Frank Capra.) Mister X ci finanzia il primo film: Balsamus, uomo di Satana. Centosessanta milioni (di allora) totalmente perduti. Non pago, Mister X ci finanzia anche il secondo: Gli indemoniati, altri centodieci milioni che prendono il volo e non tornano mai più. Con questi due cadaveri sul groppone, la nostra città di provincia, che non aspettava altro, coglie l'occasione per dichiararci dei presuntuosi senza arte né parte, degli scialacquatori, dei profittatori, in breve degli imbroglioni e dei falliti senza speranza. Il gruppo si scioglie, e tutti tranne me ritornano con le pive nel sacco all'ovile delle aziende, dell'Università, degli impieghi. Io resisto. Tirandomi dietro una moglie e due figli scappo a Roma, dove resto disoccupato per quattro anni, e passo le mie giornate cercando di vendere copioni, cosa che a Roma tenta di fare un abitante su due. Qui però devo dire che Roma fu ed è molto più generosa di Bologna, perché, essendo molto più scettica e distratta, a Roma nessuno ti considera un fallito. A Roma nessuno è un fallito come nessuno è un arrivato: ciascuno vive nella totale indifferenza di tutti gli altri, il grande privilegio delle metropoli. |
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Fra tutti i copioni che cercavo invano di vendere, ne avevo uno che mi era particolarmente caro: la Mazurka. Per il ruolo di protagonista (il barone Anteo Pellacani, romagnolo mangiapreti) io accarezzavo l'idea di avere Paolo Villaggio, che allora aveva appena raggiunto la celebrità televisiva e secondo me sarebbe stato un eccezionale attore di cinema. Il soggetto nasceva da un episodio leggendario(un miracolo o giù di lì) avvenuto nella mia famiglia: una zia resuscitata. Andò così. La zia era morta, o così almeno pareva. Mia madre, che aveva in casa dell'acqua benedetta di Loreto, la segnò con quella, e insieme ai dolenti recitò le consuete preghiere sulla salma. La notte stessa, la presunta salma della zia (uno scricciolo di trentaquattro chili) si alzò dal letto e si presentò in cucina. Trasportata d'urgenza all'ospedale, durante il tragitto continuò a gridare: «Macché ospedale, io voglio un piatto di tagliatelle!». La morta non era mai stata così bene. Eravamo in pieno doncamillismo, ed è facile immaginare l'entusiasmo popolare nato intorno al miracolo. Sennonché, a breve si scoprì che la zia (zitella) era incinta. Il grande Peppone insorse, elaborando la teoria che a resuscitare la morta fosse stata la tempesta ormonale della gravidanza, piuttosto che l'acqua di Loreto come millantato dai clericali oscurantisti. Insomma, armato di questo copione riuscii ad avvicinare Paolo Villaggio e lo convinsi a farlo. Laura Betti, anche lei bolognese emigrata a Roma, mi presentò Giovanni Bertolucci, cugino di Bernardo, che faceva il produttore per la Euro Film. Il progetto si avviò, o così almeno pareva. Dico almeno pareva, perché, prima di avviare la produzione, la Euro voleva che a garanzia del suo consenso Villaggio siglasse il copione pagina per pagina. A questo punto, Villaggio comincia a farsi negare, e per farla breve, sparisce. |
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Come si comprenderà facilmente, ero disperato. Un giorno mia madre mi dice: «Guarda, ho letto sul giornale che a Torvajanica si disputa il torneo Tognazzi, e domenica gioca Villaggio». Io mi faccio coraggio, racimolo tutta la faccia tosta che non ho, prendo la Cinquecento, vado a Torvajanica, chiedo dov'è il villaggio Tognazzi, e mi indicano un gruppo di bungalow circondato da una palizzata bianca. Trovo l'ingresso, suono, e mi viene ad aprire un cameriere in giacca e guanti bianchi. Dietro al cameriere intravedo un grande prato all'inglese, e a mangiare, bere, ridere e chiacchierare su quel prato c'era tutto il cinema italiano. Ugo aveva appena fatto "Romanzo popolare" con la Muti, ed era l'attore più popolare e più pagato del cinema italiano. Io mi affaccio timidamente, e dico al cameriere: «Scusi, cerco il signor Villaggio». II cameriere si volta e me lo indica sul prato. Entro. Villaggio mi vede, e alza gli occhi al cielo, perché da un pezzo cercava di sfuggirmi. «Senti, Paolo» gli dico, «qui alla Euro vogliono che firmi tutte le pagine del copione, se no il film non si fa.» E lui, seccato: «Adesso no» mi fa «adesso devo giocare. Mettilo lì sul tavolino». Poi mi volta le spalle, e mi pianta lì. Insomma, tutto in fumo. Io appoggio il copione su quel tavolino di formica, esco, risalgo in Cinquecento e me ne torno a Roma. Non ricordo se ho pianto, ma se non ho pianto è solo perché mi mancava anche la forza di piangere. Quindici giorni dopo mia moglie mi fa: «Ha telefonato Tognazzi da Parigi». Io faccio spallucce: «Ma dai!». Bisogna sapere che da quando avevo detto che volevo fare il regista, ero stato vittima di mille scherzi crudeli, perché in queste cose i bolognesi, e i provinciali in genere, sono spietati: le belle volte che mi telefonavano nel cuore della notte i finti De Laurentiis per propormi contratti da fiaba. Ma stavolta chi aveva telefonato aveva lasciato un numero per farsi richiamare. Comunque fosse, non potevo certo lasciar perdere. Allora, per le chiamate internazionali non c'era ancora la teleselezione. Chiamo il centralino, prenoto la chiamata, e aspetto vicino al telefono. Passa un (brutto) quarto d'ora, passano venti minuti. Finalmente il telefono squilla, e dall'altro capo del filo parla, in francese, un essere umano; probabilmente, un concierge. Raccatto quel po' di ricordi scolastici che mi bastano per dire: «le checche Monsieur Tognazzi» e, miracolo! Dal telefono esce la voce di Ugo che mi fa: «Che ne pensa? Potrei farlo io, questo barone Anteo Pellacani? Se le va, ne parliamo a casa mia questo venerdì. Lei è libero?». Io, erano quattro anni che ero libero. Insomma, venerdì andiamo a casa sua, e Ugo ci aveva preparato una cenetta tutta a base di fichi fioroni. Accetta di fare il film a percentuale, cioé senza esigere un cachet. Villaggio avrebbe coperto un ruolo secondario. Bene. Dal primo ciak della Mazurka fino a oggi, io non ho smesso di lavorare una settimana. |
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Durante la lavorazione del film, il mio stato di sudditanza psicologica nei confronti di Ugo era totale, più da fedele con il suo Dio che da regista con il suo attore. Così che Ugo stabilì con me, in quell'occasione, un rapporto diverso da quello che di solito stringeva con i suoi registi. Con qualcuno, per esempio con Ferreri, era un rapporto d'amore e di complicità profonda, con qualcun altro un rapporto di scontro e di sfida, perché Ugo era un passionale, e relazioni asetticamente professionali non ne stabiliva. Invece in me vedeva, probabilmente, il quasi ragazzo che grazie a lui aveva realizzato il proprio sogno e, da buon padre, protettore e benefattore, con me fu estremamente mansueto. Ma questa sua generosa mansuetudine io non la misi per niente a frutto. Per avere un'idea del perché, si valuti questo fatterello. Alla fine di ogni inquadratura, il regista dovrebbe dire: «Stop!». Io dicevo: «Grazie!». Allora Ugo replicava: «Ma, forse dovremmo farne un'altra, non ti pare? Forse viene meglio». E io: «No, no, grazie, Ugo, va bene così, è perfetto, meraviglioso, grazie!». Per farla breve, non l'ho diretto neanche per un secondo. L'ho semmai guardato, ammirato in un'estasi di riconoscenza, di felice incredulità, di turbamento, di innamoramento, di beato stupore. |
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Da allora, gli ho voluto un bene così grande e così duraturo che tanti anni dopo, a ridosso della fine della sua carriera, quando le cose sue cominciavano ad andare male e le mie invece andavano benino, io che dal tempo della Mazurka mi rodevo per avere avuto l'occasione di dirigere un attore di quella grandezza e averla poi sciupata così, mi dissi che era ora di lavorare di nuovo con Ugo. C'era in me un misto di preoccupato affetto per lui che era in difficoltà, di riconoscenza per l'antico debito grande e di voglia di dimostrargli che, a quel tempo, non aveva avuto davanti a sé un qualsiasi fantoccio inginocchiato, ma uno che nel tempo, e certo grazie anche a lui, qualcosa aveva pur imparato; uno che il mestiere del regista lo sapeva fare, e che se non glielo aveva dimostrato allora, poteva e voleva dimostrarglielo adesso. |
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Allora alzai il telefono e gli dissi: «Senti, Ugo, abbiamo un'idea per te. Sarebbe un film dove tu sei un vecchio manager del vecchio calcio nel momento che il vecchio calcio sta morendo e diventa insieme moderno, fasullo e criminale» (era di quel periodo lo scandalo del calcioscommesse). Lui fu subito entusiasta. Quando al telefono gli chiesi se era d'accordo che glielo scrivessi io, accettò subito con gioia. Letto il copione, gli piacque. Facemmo una produzione finalmente regolare, con tutti i ruoli, le tradizioni e le gerarchie rispettati, e ne uscì un film dove lui è, semplicemente, straordinario. Tant'è vero che Franca Bettoja dice spesso (e ne sono naturalmente felice) che il film che le ricorda di più Ugo com'era nella vita è proprio quel nostro ultimo minuto. Sul set, si stabilì subito fra noi un rapporto di grande intensità, perché quel film significava moltissimo per entrambi. Giravamo la scena d'apertura del film, con Ugo che si sveglia in albergo e Nick Novecento che viene a portargli un caffé. Prima del ciak, gli sono andato vicino per augurargli in bocca al lupo. Gli stringo le mani e mi accorgo che le sue sono gelate: era emozionatissimo. Il suo personaggio di vecchio leone che combatte la sua ultima battaglia, mentre il suo mondo gli crolla intorno, lo respinge e lo tradisce, gli era entrato dentro il midollo delle ossa. Come avrebbe potuto non sapere che quel film era una delle ultimissime occasioni per riguadagnare il posto che era stato suo, il posto che gli spettava? Quando finimmo il film, a tutte le proiezioni private Ugo veniva con moglie e figli: se lo sarà visto sei o sette volte. Io ero sicuro che non solo il film avrebbe avuto un grande successo, ma che Ugo avrebbe fatto vendemmia di premi, perché aveva dato un'interpretazione di autentica grandezza. Invece, niente. Il film é andato male, e Ugo non ha vinto niente, né il David di Donatello né niente, neanche il premio del Comune di Roccasecca. Avevo sperato di ringraziarlo e risarcirlo, e invece gli avevo dato un'altra occasione per un nuovo smacco, per una nuova sofferenza. |
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Con mia moglie andavamo spesso a trovarlo a Torvajanica, e lo trovavamo da solo in quella grande casa vuota che un tempo era sempre piena di amici veri e falsi, di colleghi e di parassiti, di buontemponi e di adulatori, tutta una corte che si era andata via via diradando con il declinare della sua celebrità e della sua buona stella. Quel che gli piaceva di più era quando gli chiedevo di raccontarci degli aneddoti della sua vita, una fantastica vita da picaro che di aneddoti era stata incredibilmente generosa. |
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Finché una sera (l'ultima che l'ho visto) lui ci ha accompagnato al cancello. Quando mi sono voltato per salutarlo, ci siamo guardati; e lì, ho avuto la chiara sensazione che non ci saremmo più rivisti, perché c'era in lui, in tutta la sua persona, qualcosa di arreso; e Ugo era un uomo che non si era mai arreso, che aveva sempre reagito a tutto. Anche con l'egoismo, eh? Con l'egoismo, con una disordinata fame di vita, perché Ugo era stato uno che per acchiappare le cose belle della vita non s'era mai fatto tanti riguardi. Quella sera, guardandolo, ho sentito che quella fame di vita in lui non c'era più, che al suo posto gli era spuntata dentro la fragilità di chi ha perso il gusto di lottare. E infatti, pochi mesi dopo Ugo non c'era più. |
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