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CINEMA
  - UGO TOGNAZZI E RAIMONDO VIANELLO AL CINEMA / Il dramma della separazione
 
     
 
     
 
Il dramma della separazione
 
     
  Versione in prosa  
     
  Ugo Tognazzi: «Dieci anni di rivista, e mai una volta che mi sia sentito qualcosa più della Pro Patria nel campionato di calcio. Appunto in quel periodo, nel '56 ("Un, due, tre", il varietà televisivo con Vianello e me, tocca quell'estate le punte d'ascolto degli inizi di Lascia o raddoppia? e del Musichiere), che faccio il mio primo tentativo con una compagnia di prosa. Recito una specie di farsa, "Il medico delle donne", e resto tre mesi in un teatro di Milano a platee sempre esaurite. L'anno dopo, nella stagione '57-58, tento una cosa che nell'ambiente del teatro leggero appare a molti incomprensibile. Invece di una compagnia di rivista (dove la mia quotazione è già sulle ottantamila lire a sera), eccomi organizzare una compagnia di prosa nel cui foglio paga il mio compenso è di venticinquemila lire. La formazione agisce pochi mesi con un brutto repertorio ("Il fidanzato di tutte", "Papà mio marito"), e chiudo in passivo».  
     
     
  La Pica sul Pacifico  
     
  Ugo Tognazzi: «A questo punto ebbe inizio il mio secondo periodo cinematografico, quello che dopo un paio d'anni avrebbe portato al "Federale" (1961). Erano film prima con Tina Pica (dieci, quindici film, non mi ricordo più quanti: troppi anche per uno che ha bisogno di molto danaro), poi con le belle ragazze di passaggio a Cinecittà, poi con Walter Chiari, e ogni volta le gag erano peggiori, i titoli più incredibili, e sembrava proprio, a parte i compensi più alti, il'51-52, quando ho cominciato col cinema e facevo "I cadetti di Guascogna", "Auguri e figli maschi" e "La paura fa 90" con Silvana Pampanini».  
     
  «D'altra parte mi seccava un pò che nessuno tenesse presente, proponendo a me e a Vianello "I baccanali di Tiberio" e "Un dollaro di fifa", il nostro lavoro in "Un, due, tre". In quella trasmissione avevamo lavorato esclusivamente sull'attualità, sui tipi che si vedono alla televisione o nelle strade o negli uffici, sulle cose che succedono in Italia, e avevamo avuto un grosso successo. Al cinema, invece, dovevamo rimetterci a fare i buffoni e a interpretare storie assurde. Ripeto, era scocciante, ma d'altra parte ci davano un bel pò di milioni».  
     
     
  "Il federale"  
     
  Ugo Tognazzi: «lo, poi, speravo nel "Federale". Un giorno due giovani sceneggiatori mi avevano portato quel soggettivo, e io avevo capito che ne poteva venir fuori un discreto film. Così, ogni volta che un produttore arrivava a propormi un film io tiravo fuori "Il federale", ma lui me lo restituiva il giorno dopo e quasi sempre con queste parole: «Ma Ugo, te sei ammattito?». (Da "Settimo giorno", 14 marzo 1964.)»  
     
     
  Senza rancore  
     
  Raimondo Vianello: «Nel 1961 Ugo fece "Il federale", il film che gli ha fatto fare il salto di qualità nella carriera, perché prima aveva fatto solo i film con me, che erano filmetti senza pretese. Non vorrei sbagliarmi, ma mi sembra che il film fosse stato scritto per la coppia, e si intitolasse "Io e il federale". L'avevano scritto Castellano e Pipolo. Ugo però capì che facendolo con un altro avrebbe potuto uscire dallo schema della nostra comicità; e me lo disse, non mi fece la cosa di nascosto. Mi disse: «Se la faccio con te, rifacciamo uno dei soliti film, se la faccio con un altro» (e alla fine quell'altro fu l'attore francese di teatro e di cinema Georges Wilson) «ho la possibilità di fare qualcosa di nuovo». Ma non solo fu sincero, mentre un altro l'avrebbe fatto di nascosto: «... Scusa, sai, ma mi hanno chiamato, faccio un altro film...», ma mi chiamava a vedere il girato sul quale era pieno di dubbi, perché Ugo era così, passava dall'esaltazione senza fine al pessimismo più enorme; e io gli dicevo: «Ma guarda che è molto carino; adesso lo vedi così, con la colonna sonora provvisoria, senza il montaggio...» insomma lo incoraggiavo, e a ragione, perché il film fu poi quel successo meritato che fu».  
     
     
  Due domande a Ugo  
     
  Gaetano Tumiati: «Le domando se quella nota di tristezza esista anche in lui: se anche il Tognazzi uomo, cioé, sotto la scorza epicurea celi una vena di segreta mestizia».  
     
  Ugo Tognazzi: «Triste io? per carità, non lo sono mai stato. Certo mi dispiace che nel mondo ci siano sofferenze e dolori. Se potessi, li cancellerei. Ma triste proprio non riesco a esserlo. È contrario alla mia natura».  
     
  Tumiati: «Perché mai allora ama i personaggi che hanno anche un lato amaro, malinconico?»  
     
  Tognazzi: «Perché appunto desidero andare più a fondo, e per andare a fondo la comicità non basta, occorrono il dolore e la sofferenza. E poi perché sullo schermo questo mio viso da can da caccia è più adatto alle espressioni meste che a quelle spavalde». (Intervista di Gaetano Tumiati, in "La Stampa", 19 novembre 1967.)  
     
     
  E gli ideali di un provinciale...  
     
  «Vero» ammette Tognazzi, «faccio una vita disordinata e faticosa. Ma che vuole, quando ero impiegato in un salumificio e la sera tornavo nel palazzone di ferrovieri dove abitavamo, se pensavo a uscire da quel grigiore, da quelle ristrettezze, se forzavo il cervello a immaginare un successo qualsiasi, e quindi il danaro, non erano i risi al burro che mi venivano in mente, o le serate che finiscono alle dieci. No. Pensavo alle pernici, alle bionde come quelle che vedevo al cinema, ai night-club, e insomma a una vita diversa, piena di cose belle da vedere, buone da mangiare, da toccare, da comprare. E ora che questa vita ce l'ho, cosa dovrei fare: pensare alla linea, a mantenermi in forma, magari a istruirmi? Eh, no. Per l'istruzione, guardi, mi dispiace. Dico la verità: uno dei pochi rimpianti che ho è quello di non aver avuto prima il modo e poi il tempo di leggere, di apprendere. Ma per il resto, cosa vuole che m'importi? La linea? Io sono un attore, non un ballerino. La salute per arrivare a novant'anni? Io la salute ce l'ho, a novant'anni ci arrivo lo stesso, e se non dovessi arrivarci mi consolerei pensando che mi sono goduto la vita, e che ho realizzato i miei ideali di provinciale. Appunto il gran cibo, le donne, le macchine favolose, le notti che non finiscono mai». ( Lia Quilici, in "L'Espresso", 10 novembre 1963.)  
     
     
  Il dramma di Raimondo  
     
  Raimondo Vianello: «Mi ricordo che una volta andai a girare un film, "Sette volte sette", prodotto da Marco Vicario che aveva appena ottenuto un grandissimo successo con "Sette uomini d'oro" e voleva sfruttare il filone. Mi chiamarono e mi dissero: «Guardi, lei ha una maschera di grande effetto; ha fatto sempre il comico e ha fatto bene, ma se qui fa un ruolo serio vedrà che scoperta, vedrà che svolta di carriera». Non era un vero e proprio personaggio drammatico: ogni tanto, se mi veniva una battuta la mettevo. La parte ironica vera e propria la doveva fare Moschin; c'erano Turi Ferro, Lionel Stander... Insomma, mi dissi: «Perché no?» e decisi di fare questo esperimento».  
     
     
  Thriller  
     
  Raimondo Vianello: «La trovata del film era questa: noi eravamo tutti in carcere in Inghilterra. Moschin, la mente, era libero, e da fuori preparava un piano per il colpo perfetto. Noi ci facevamo pestare per andare in infermeria; da lì fuggivamo, ingannando con un nastro registrato le telecamere di sorveglianza, e approfittando della finale della Coppa d'Inghilterra che calamitava l'attenzione generale ci introducevamo nella Zecca e stampavamo un'enormità di sterline false indistinguibili dalle vere. Io ero il tecnico falsario; mi avevano caratterizzato con un apparecchietto acustico e gli occhiali. Fatto il colpo, rientravamo in carcere passando attraverso le fogne, ma per il classico imprevisto tardavamo sulla tabella di marcia e ci diventava impossibile rientrare prima della fine della partita. Ormai eravamo certi che le guardie, ritornando a controllare, avrebbero scoperto la nostra assenza: ma con un colpo di scena la squadra in svantaggio pareggiava a un minuto dalla fine, e grazie ai tempi supplementari ce la cavavamo per il rotto della cuffia».  
     
     
  Cinema Verità  
     
  Raimondo Vianello: «Girammo la parte del penitenziario ad Amburgo, in un penitenziario vero. Quando uscivamo, io avevo la stessa divisa dei carcerati veri, e più d'una volta le guardie mi acchiapparono per la collottola: «Dove vai, tu?».  
     
  «Ma l'avventura più insolita fu questa. Ci avevano avvertito, quando entrammo nel penitenziario di Amburgo, che vi era incarcerato un uomo che aveva ucciso diverse persone senza un movente riconoscibile (all'epoca, non si parlava ancora di serial killer). Nel corso delle riprese, per un caso banale, la porta di un ufficio che doveva restare aperta e invece si chiuse, mi ritrovai solo in una stanza chiusa a chiave con questo assassino. Con i suoi grandi occhi fissi, mi guardava, mi guardava... quando ero sul punto di ricorrere a quel pò di tedesco che so per rompere quel silenzio, il personale della prigione si accorse dell'errore, aprì la porta e mi fece uscire sano e salvo. Non so quanto durò sugli orologi, la mia permanenza in quella stanza: credo poco; ma furono assai lunghi, quei minuti».  
     
     
  Una svolta di carriera  
     
  Raimondo Vianello: «Con quel ruolo semidrammatico, in effetti ebbi una grande svolta di carriera: dopo non mi chiamò più nessuno. Per un anno non ho lavorato. In giro dicevano: «Vianello s'è messo a fare quello serio...». Ecco perché ho detto che voglio morire senza fare una parte drammatica».  
     
  [fonte: tratto dal libro "UN, DUE, TRE"].  
     
     
     
  FOTOGALLERY  
     
 
 
Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi   Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi   Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello
 
     
 
Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi   Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi   Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi
 
     
 
Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi   Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello   Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi
 
     
 
Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi    
 
 
 
     
   
   
 
 
 
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UGO TOGNAZZI E RAIMONDO VIANELLO AL CINEMA
     
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