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Passare alla storia... fanello nelle vesti di un regista martoriato. |
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VIANELLO: «Io credo che un film debba nascere dentro di noi, debba macerarsi prima di prender forma concreta...» |
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E muovendo le mani, si infila il pollice nel naso... |
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VIANELLO: «Pardon. Io credo, insomma, che il tormento creativo, ma non lo so bene neanche io... debba essere qualcosa di travagliato, di contorto, qualcosa di sentito che ruota intorno a un fulcro ideale... Pardon... per sfociare poi nella visione analitica dei singoli elementi si deve, insomma, cercare di trasportare in termini umani ciò che per anni si è tenuto compresso, involuto, fino al momento della maturazione durante il quale... zac!... Pardon... Scusate, forse è meglio che vada a prendere un fazzoletto!» |
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Vianello esce di campo. (Da "Un, due, tre", di Giulio Scarnicci e Renzo Tarabusi, 1954-59.) |
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O passare alla cassa? |
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Tognazzi nelle vesti di un produttore facilone. |
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TOGNAZZI: «Non è vero! Nego quanto ci ha detto l'illustre regista. Il cinema d'arte non esiste. Il cinema sono io! Io decido di fare un film. Decido io!... Ai soggettisti dico io quello che devono scrivere, agli sceneggiatori quello che devono sceneggiare. Il film sono io! Nel cinema c'è solo una personalità ed è la mia! Se il film ha successo il merito è tutto mio, se il film è una buffonata la colpa è tutta mia! Il regista non conta! Il regista deve fare quello che voglio io! Se io sono senza donna di servizio il regista la mattina alle sette deve essere a casa mia e servirmi la colazione a letto... E zitto! Se ho della biancheria da lavare il regista la deve lavare... E zitto! Se ci sono delle commissioni da fare, il regista prende la sua brava bicicletta e fa le commissioni, perché nel cinema si deve far tutto e io sono tutto! Gli attori li pago io e devono fare come dico io! Perché i soldi sono miei e se sbaglio, sbaglio io e pagare pago di tasca mia... Pago io e nessun altro!...» |
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SEGRETARIA: «Scusi, commendatore...» |
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TOGNAZZI: «Stai zitta!... Qui parlo io e nessun altro!» |
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SEGRETARIA: «Volevo ricordarle la scadenza di quelle cambiali...» |
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TOGNAZZI: «Ah!... Guarda un pò se puoi trovare un altro... prova a telefonare al conte Rosevi per quel prestito... Perché il cinema sono io! Perché se sbaglio pago io!» |
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Lui dice che piece |
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In una serie di "Un, due, tre", iniziavamo la stagione con una specie di inchiesta sulla nostra trasmissione fatta nei paesi; i nostri autori avevano preparato la scenetta di due meridionali al caffé che, in un mezzo barese di fantasia, dicevano: «Tu che ne dici?», «Io dico che piece». Alla fine della prima puntata, dopo i saluti, io mi voltai verso Ugo e gli ripetei: «Tu che ne dici?», e lui: «Io dico che piece». |
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Da allora lo facemmo sempre. Di lì a poco vennero due produttori cinematografici e ci proposero di fare un film. |
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Graffiante attualità |
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Su che cosa?, chiedemmo. Sul «Tu che ne dici?» «Io dico che piece», cioé sul nulla: e, incredibile ma vero, lo facemmo. |
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Realismo magico |
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Uno di questi due produttori era molto piccolo di statura, e disse: «Noi vorremmo inaugurare con questo film una nuova casa di produzione dedicata ai film leggeri, senza usare la solita (piuttosto famosa) che abbiamo adesso. Voi che siete autori, avete un suggerimento per il nome? Come la chiamereste?». Tarabusi lo guardò serissimo e disse: «Io proporrei la Gnomo film». |
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Amici miei, uno |
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Su queste battute Scarnicci si nascondeva a ridere da una parte, io dall'altra; e invece Tarabusi proseguiva imperterrito ad argomentare le profonde ragioni simboliche del titolo proposto: «Perché lo gnomo, esserino benefico e burlone... eccetera». Li chiamò la Snia Viscosa per uno slogan. E Tarabusi, al telefono: «Ma uno slogan per che cosa?». «Una fibra.» «Che fibra!» ribatté Tarabusi. E lo slogan fu accettato, e pagato, credo, duecentomila lire di allora. Giocavamo molto a carte con Scarnicci e Tarabusi, a stenbogen... una specie di derivazione del bridge... C'era una complicità enorme, tra noi... Tarabusi, un burlatore terribile, era persona serissima, capace della perfetta impassibilità, con soltanto un angoletto di labbro sollevato; Scarnicci reggeva meno, e si nascondeva per scoppiare a ridere. Organizzavamo, l'idea era loro, delle discussioni, delle tremende litigate in modo da creare capannelli di curiosi. Per esempio, il tormentone del dottor Naga.. «Il dottor Naga non è vero che sia uno scienziato serio, è un imbroglione, un ciarlatano...» diceva uno. «Ma come?!» replicava l'altro, «È un luminare, un benefattore, hai visto che titoli di studio, che pubblicazioni? ..un faro della scienza moderna eccetera eccetera» con tanto di termini scientifici veri e inventati, che Tarabusi era bravissimo a sfoderare perché aveva una formazione scientifica, aveva lavorato come dirigente nel settore ottica di precisione, alle Officine Galileo. Finché qualcuno non chiedeva: «Ma, insomma, chi è questo dottor Naga?». E lui, serafico, anche un pò sorpreso dell'ignoranza del suo interlocutore: «Il dottor Naga? Ma è quello che cura il buco del culo come fosse una piaga». Mezz'ora di litigata, e poi zac! A rischio di prendere anche delle botte, eh? In toscano strettissimo. Con il loro toscano! |
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Sangue e arena |
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Lo insegnammo anche a Ugo, questo stenbogen; come Sandra, Ugo non c'era affatto tagliato per i giochi matematici, e noi li prendevamo in giro. A Ugo lo insegnammo in Spagna, alla Torre di Madrid, e facemmo parecchi giri di prova. Dopo lunghe spiegazioni, si iniziò a giocare e lui, appena qualcuno uscì a cuori, gridò: «Mia!» facendo la mossa che garantiva sicura sconfitta, e che da un'ora gli raccomandavamo di non fare... non era un calcolatore, Ugo, non era certo adatto ai giochi di strategia... |
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Una volta che andammo in Spagna a girare con Scarnicci, Tarabusi e Ugo, cominciammo a dire che eravamo la quadriglia di un torero (Ugo) e parlando nel nostro spagnolo maccheronico sostenemmo questo siparietto per tutti i locali di Madrid, mentre cercavamo una donna, perché Ugo diceva: «Io non vado a letto se non... eccetera» ma non è che fosse facile, alle cinque del mattino, concludere la serata, visto che non conoscevamo nemmeno certi posti dove... E Tarabusi diceva: «Non si tromberà, però si ride tanto». |
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Un matador bergamasco |
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Una volta Scarnicci e Tarabusi gli scrissero un pezzo con un torero strabico (quanto gli piaceva fare gli strabici in scena!) che aveva la spada storta come gli occhi, ma nella direzione opposta, per compensare lo strabismo: gli occhi guardavano a destra, la spada puntava a sinistra, il toro era lì davanti a lui, e grazie a questo geniale meccanismo lui fulminava il bestione. La musica spagnoleggiante che precedeva l'entrata in scena del matador lo esaltò a tal punto che si dimenticò di fare gli occhi storti: e tutta la scenetta viveva solo su quello. Allora io, carogna, gli dissi, lasciando la battuta per ultima perché non avesse modo di riprendersi: «E, scusi: perché mai ha la spada così?» e lui: «Osteria, me sun desmentegà», col suo vocione gutturale da spagnolo/veneto. |
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Due uomini in fuga |
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Una volta eravamo in Spagna con Ugo, e lui voleva andare a vedere la corrida. Non era un giorno festivo, perché stavamo girando. Erano già le quattro del pomeriggio, e come si sa le corride cominciano alle cinque de la tarde. Facevamo "I tromboni di fra' Diavolo". Era una scena in cui, pesantemente truccati e con un ingombrante costume, ci allontanavamo lungo una strada di campagna, seguiti in campo lungo dalla macchina da presa che eseguiva un lento carrello in avanti. Appena arriviamo a un bivio, Ugo mi fa: «Via, via, scappiamo!». Tagliammo giù per il bosco a rotta di collo, buttando via i costumi in corsa. In fondo alla strada c'era una macchina che ci aspettava: ci buttammo dentro e via, alla corrida, mentre la troupe, basita, aspettava che rispuntassimo dal bosco. In questo Ugo era terribile, io da solo non l'avrei fatto, puoi mettere in difficoltà facendo ridere o scherzando, ma proprio andarsene via, quello no... del resto come facevo a lasciarlo scappare da solo? Era un amico. |
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Amici miei, due |
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Scarnicci e Tarabusi... lo spunto di "Amici miei" fu loro, perché le goliardate erano loro: le facevano, oltre che scriverle. Poi ne parlarono a Germi, tant'è vero che un giorno, Tarabusi era già morto, Scarnicci stava male anche lui, ero sempre in clinica da lui a Roma... venne Germi e lavorò sul progetto. Però Germi l'ambientò a Bologna, che era un'idea sbagliata perché si perdeva tutto lo spirito toscano; e voleva che lo facessi anch'io; dopo morì Germi, e Monicelli lo riportò a Firenze com'era in origine, lavorando sull'idea di Scarnicci e Tarabusi con Benvenuti e De Bernardi. Era la trasfigurazione di ricordi ed esperienze di Scarnicci e Tarabusi; per esempio, il personaggio di Ugo, il conte Mascetti, era un amico loro; ed erano loro che andavano alla stazione a dare gli schiaffoni ai viaggiatori in partenza. Mi chiesero di lavorarci, ma io rifiutai. Perché? Mah... io non sono tanto amico delle comitive, dello spirito cameratesco delle comitive, e invece loro, Monicelli, Ugo, gli altri, mi dicevano: «Dai, vieni, abbiamo già prenotato le trattorie, facciamo delle mangiate indimenticabili...» e la prospettiva non mi sorrideva tanto. Un pò questo, un pò perché lessi la prima scena che dovevo fare, e, non che io sia tanto prude, ma dovevo essere nudo, con una donna nuda, e mi sembrava un po' troppo... insomma, dissi di no. Lo fece Del Prete, il personaggio, in un film Del Prete e negli altri Montagnani. Ricordo un bello sketch al cimitero, in Amici miei, proprio nello spirito asciutto, toscano, irriverente di Scarnicci e Tarabusi. Alla morte di Tarabusi io subentrai e presi a scrivere le sceneggiature con Scarnicci, e mi piaceva molto, tanto che pensavo di smettere di recitare, di limitarmi a scrivere. |
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Ma lui non lo sa |
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Con Scarnicci e Tarabusi facemmo anche, fra le tante altre cose, "Qui Stoccolma, parla Raimondo Vianello", una trasmissione che parodiava le corrispondenze degli inviati televisivi come Ruggero Orlando e Sandro Paternostro. Andammo a Stoccolma e improvvisammo quasi tutto. L'interprete che ci avevano assegnato, e che si intendeva anche di cinema, stava in albergo con noi. Aveva un'aria decisamente effeminata, questo interprete; e la nostra troupe, composta tutta da romani, non aveva mancato di notarlo. A Stoccolma, si sa, le ragazze sono molto belle. Una sera il nostro interprete rincasa al braccio di una di queste sventole, ci saluta e sale in camera. Incredulità della troupe: «Ma che cce fa quello...». Due sere dopo, stessa scena con altra ragazza non meno bella. «Ma ssì, che vvoi che combina questo?» Tre sere dopo, arriva con un'altra svedese ancora meglio, e s'imbuca in camera sua pure con questa. Vivace dibattito nella troupe. «Ma questo nun era frodo?» Allora interviene Tarabusi, e precisa: «Sì, è frodo: però lui non lo sa, e allora tromba. Diteglielo voi, serenò questo continua a trombare, poveretto». |
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Piano americano |
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"Pugni, pupe e marinai" (1961) lo girammo a La Spezia in piena estate. Giravamo sulla coperta di una nave della Marina militare. La coperta è di metallo, e perché non s'arroventi viene riparata dal sole con grandi tende bianche, ma noi per esigenze tecniche non potevamo coprirla, e la coperta si trasformava in una padella infuocata; così che vestivamo solo la parte superiore della divisa bianca da ufficiali della Marina militare, e sotto restavamo in costume da bagno e zoccoli. Dalle altre navi che passavano in rada ci guardavano con gli occhi fuori della testa: tra l'altro non è che ci fosse sempre la macchina da presa, in coperta... |
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Il cinema come piace a me |
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Certo che, con quei tempi di produzione, a volte si lavorava su copioni un pò improvvisati... in due o tre settimane si faceva il film, e a volte capitava di chiedersi: «Adesso come si va avanti?». E allora gli sceneggiatori si dovevano inventare una trovata; ne I due evasi Scarnicci e Tarabusi scovarono quella del ghiaccio: finivamo ibernati nei blocchi di ghiaccio, che per allora era una novità. |
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Il cinema mi piaceva farlo così. Non mi piace rifare il ciak, magari perché è saltata la luce o é ballata la camera. La recitazione cinematografica é molto fredda, molto tecnica: fai la scena, poi fai i primi piani dopo, dopo ancora i controcampi, non devi guardare in viso il tuo compagno ma guardargli la spalla... Anche Sandra non ne voleva proprio sapere. Fece "Le dritte" (1958) con Monica Vitti e Bice Valori, poi lasciò perdere col cinema. Non le piace perché è un'istintiva; io non sono un istintivo, ma non mi piace lo stesso fare e rifare; mi piace inventare, non ripetere e fissare una battuta. Anche in televisione avverto sempre: «Se è in diretta, bene, ma guardate che se non è in diretta e se mi viene da improvvisare una battuta, io non la rifaccio più». Anche se a teatro la battuta improvvisata che funzionava si metteva a copione. Se il pubblico rideva, la sera dopo si rifaceva. A teatro, però, è diverso: c'è un rapporto indissolubile, mesmerico col pubblico... e infatti, lavorare senza pubblico non mi piace, nemmeno in televisione. Se la trasmissione è registrata chiedo sempre che portino pubblico in studio, pubblico vero, non pubblico pagato, perché solo così sento se il pubblico risponde o no. Anche in teatro, però, ripetere mi pesa molto, tant'è vero che ormai teatro non ne faccio più, da tanti anni. Sempre per la famosa mancanza di vocazione, ero arrivato al punto che tolta l'emozione della prima, che è sempre una scoperta reciproca con il pubblico, già mentre recitavo alla premiére cominciavo a pensare: «Mio dio, domani sera devo rifarlo, e poi per altri tre, sei, otto mesi...». Il mio limite di sopportazione senza noia, in teatro, è diventato di una volta sola, che per il teatro è un pò poco: al massimo va bene per il teatro greco di Siracusa, per l'Arena di Verona... |
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Due anni fa proposero a Sandra e a me di fare al Teatro San Babila Sul lago dorato, la commedia resa famosa dal suo allestimento cinematografico con Henry Fonda e Katharine Hepburn. Rifiutai, sia per questo mio rigetto della ripetizione, sia perché ci saremmo trovati soli, noi due, nei malinconici camerini del Teatro San Babila. Quando facevo teatro, teatro di rivista, una compagnia era formata, fra corpo di ballo e attori, da cinquanta, sessanta persone... c'era un'allegria, una vitalità da accampamento zingaro o circense... poi c'erano tante belle ragazze, fra ballerine, soubrettone, soubrettine... i ballerini al novanta per cento erano fuori concorso perché avevano diverse preferenze, quindi c'era un bel terreno di caccia... |
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Le olimpiadi dell'improvvisazione |
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"Le olimpiadi dei mariti"... era il 1960. Eravamo partiti con l'idea di fare una parodia della Dolce vita; e non era affatto una parodia facile o corriva, anzi, il copione di Scarnicci e Tarabusi era assai ben scritto; iniziava, come il film di Fellini, con il trasporto in elicottero di una grande statua... però quando Fellini seppe della parodia non gradì, e lo fece sapere al nostro produttore, che era in stretti rapporti di lavoro con i produttori di Fellini, e non ebbe altra scelta che abbandonare il progetto. Però la troupe era già scritturata, e mancavano pochi giorni all'inizio delle riprese. Che fare? Per fortuna, c'erano le Olimpiadi a Roma, e su questa felice coincidenza improvvisammo il film giorno per giorno. Ugo e io eravamo due giornalisti che vogliono darsi al bel tempo, e come scusa di copertura per le mogli s'inventano che a Roma c'è una cellula nazista sulla quale devono investigare. Naturalmente si scopre che la cellula c'è davvero. Francis Bianche, che aveva avuto un grande successo nel ruolo del comandante hitleriano in un film con la Bardot, rifece anche lì il nazista pazzo; poi, sempre in cerca di spunti per questo copione improvvisato, ci chiedemmo: «E adesso come si finisce?». Allora io dissi: «Facciamo che passa Hitler». Conoscevo un esule russo, persona assai civile, che per sbarcare il lunario rivendeva a un drugstore molto chic di via Veneto certi dolci russi che sapeva fare solo lui. L'esule era praticamente identico a Hitler: lo scritturammo e lo facemmo apparire. Era il surrealismo dei bisognosi... |
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Con la partecipazione involontaria di... |
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"Il mio amico Jekyll" (1960) l'ho girato mentre ero in compagnia di Ugo; io ero il dottor Jekyll, Ugo il terribile mister Hyde, la ragazza Héléne Chanel. Il regista Mario Girolami prese alcune di queste scene di Tognazzi mister Hyde e le trasportò pari pari in un altro film dove recitavamo io e la Chanel, ma non Ugo, almeno non volontariamente. Io stavo con Héléne, ero geloso di un uomo del mistero e lo sognavo: ed ecco che per risolvere gli incubi vennero buone le scene girate da Ugo per Il mio amico Jekyll. Nei credits Girolami fece scrivere: «Con la partecipazione involontaria di Ugo Tognazzi». |
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«A Cape'!» |
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In un film diretto da Steno, facevo un giovane arrabbiato, capellone, coi jeans. Giravamo a Caprarola, a due passi dal meraviglioso Palazzo Farnese. All'epoca si usavano i riflettori ad arco voltaico, che erano mastodonti pesantissimi. Il direttore di produzione aveva assunto un po' di aiuti su piazza, cioé di manovali del posto, per aiutare a trasportare queste attrezzerie così ingombranti; quando arrivo sul set truccato da capellone i macchinisti decidono di fare una burla ai locali che non mi avevano riconosciuto, e mi fanno: «A cape'! Vie' qqua a da na mano!». Io, zitto, sto al gioco, vado, e come fossi un altro aiuto su piazza do una mano. In un intervallo della lavorazione, devo chiedere una cosa sul copione e mi siedo vicino a Steno. I locali mi vedono, si scandalizzano dell'ingiustizia, ricorrono al capo macchinista e protestano: «An vedi a capé, mortacci sua?! An vedi? Intanto che noi stiamo a lavorà, quello s'arruffiana er regista...». |
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In natura |
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Ne "Il giorno più corto" (1963) io feci una partecipazione molto breve, perché il film era costruito con i cammei di sessanta o settanta attori noti, come Il giorno più lungo, il film americano sullo sbarco in Normandia che stavamo parodiando. Io avevo tre giorni di pose, e la produzione mi chiese che regalo volessi, perché l'accordo era di sistemare amichevolmente il compenso con un regalo. Ero indeciso, e allora mi suggerirono: «Sai, Peppino De Filippo ha preso una Seicento...». Colsi la palla al balzo: «Una macchinetta, benissimo: io però preferirei la Mini Morris». «Che cos'è?» «Niente, un'utilitaria inglese...» «Affare fatto». Però la Mini era appena uscita, e quello non sapeva che costava molto di più di una Seicento. Naturalmente lo scoprirono assai presto. Altrettanto presto mi accorsi che il direttore di produzione stava accelerando moltissimo la mia parte, e che cercavano di sbrigarmi in un giorno solo di riprese. Poi, in una pausa della lavorazione, il direttore di produzione viene da me e mi fa: «Raimondo, ti piace il prosciutto?». «Certo, ma che c'entra?» «Perché sai, da queste parti fanno un prosciutto, un prosciutto...» e come si offre un mazzo di fiori, mi presentò un prosciutto intero. Insomma, cercavano di sbrigarmi in un giorno solo per potermi pagare con un prosciutto! Allora vado dal regista (Bruno Corbucci) e gli spiego la situazione. Lui che non voleva vedermi sparire dopo un giorno solo per non trovarsi in difficoltà con le mie scene risolve il contenzioso, e io me ne vado con la mia Mini... che bella macchinetta era... faceva i centoquaranta... era molto divertente, passare a tutto gas su questa macchina così piccola, tutti si voltavano stupefatti... e anche se sono alto, ci stavo comodo perché il volante inclinato all'indietro dava un assetto di guida comodissimo... lo slogan era: «Se riesci a ribaltarla, te la regaliamo». |
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Psicoanalisi e risate |
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Con Walter Chiari facemmo "Papaveri e papere" di Metz e Marchesi. Io interpretavo lo psicanalista, e in una scena gli facevo il test di Rorschach, quello delle macchie d'inchiostro. Piegavo il foglio e gli chiedevo: «Che cosa ci vede?» e lui, giù a ridere. Non si andava avanti: non l'ho mai visto ridere tanto... all'inizio ridono tutti, ma poi la scena va fatta, la pellicola si consuma, le ore di paga corrono... «Rinuncio alla parte» dissi, «se proprio non ce la fai rinuncio!» Poi, come Dio volle, ci riuscimmo. |
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Successe anche in un Carosello con Ugo (con lui successe tante volte). Ugo rideva e non riusciva a smettere. Il regista disse: «La facciamo a stacco, prima i primi piani di Ugo, poi quelli di Raimondo. Tu però, Raimondo, adesso vai al bar, eh?». |
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Successi di critica |
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"I magnifici tre" (1961) lo facemmo con Walter, la Titanus lo produsse per sfruttare il villaggio costruito in Spagna per girarci la Maja desnuda con Ava Gardner e Anthony Franciosa. Ne risultò, in effetti, una cosa un pò pretestuosa, anche se il film incassò moltissimo. Appena uscito il film, andai allo stadio Olimpico a vedere una partita, e mi sentii chiamare: «A' Viane'!». Mi giro, e qualche posto più in là c'è un tizio che mi fa: «A' Viane'! Ieri sera ho visto "I magnifici tre". Ammazza che bojata! Me devi rida' le mille lire!». |
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