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Ugo Tognazzi su Marco Ferreri |
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Conosco Ferreri da quindici anni e abbiamo sempre lavorato insieme nello stesso modo. La prima volta, si trattava dell'"Ape regina", mi ha detto semplicemente: «Vuoi fare questo film? Si tratta di un uomo al quale la moglie fa fare l'amore fino a che ne muore». Raccontata da lui, la storia era molto semplice. Ho risposto di sì perché ho provato una simpatia e una fiducia immediate e anche una certa attrazione. Il film ha avuto successo, fu la prima volta che vinsi a Cannes, e mi ha permesso di entrare in un mondo cinematografico che amo. In tutti i film di Marco Ferreri, mentre si gira io mi rendo conto solo di quello che sto facendo, non del risultato globale cui giungerà il personaggio. Ferreri non esige mai dall'attore quella che si può chiamare un'interpretazione definita; non è un regista che organizza anticipatamente una formulazione esterna; ti parla di un vestito di sensazioni che sono quelle che provano tutti gli individui. Non indica mai caratterizzazioni precise: non si sa mai se si deve essere cattivi, buoni, sornioni; non te lo chiede, né te lo dice. Ferreri mette in scena le sue storie non attraverso dei personaggi che ha fabbricato, ma appoggiandosi psicologicamente agli attori cui affida i ruoli; lascia che si esprimano secondo il loro vero stato d'animo individuale. A Ferreri gli basta respirare per essere contro certi soprusi, certe ipocrisie... |
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Certo girare con Ferreri è stato naturale, è sempre naturale... Ferreri ha il talento di farti apparire tutto naturale... Provi a riflettere sul cast... Mastroianni il divo internazionale, italiano, Piccoli il divo internazionale francese, Noiret il divo nazionale francese, Tognazzi il divo nazionale italiano... Quattro attori abituati ad avere il ruolo principale, a dominare... Eppure non c'è stata la minima controversia, non c'è stato il minimo tentativo di sopraffazione o di reazione... Di solito, se durante una scena a uno capita di dire una battuta di più, di improvvisare, deve aspettarsi che l'interlocutore ne dica a sua volta una di più... Ognuno vuole avere, esige di avere l'ultima parola, e così certe scene si prolungano all'infinito o quasi... Ne "La grande bouffe" abbiamo anche improvvisato, ma accettandoci, collaborando, non lottando, non contrastandoci... Io avevo già lavorato e rilavorato con Ferreri, ma Noiret no, ad esempio... Anche lui, comunque, si è immerso subito nell'atmosfera... Un'atmosfera assolutamente naturale... Ferreri ha lasciato la torta lì a decomporsi... Le cose accadevano come nel film o quasi... Le galline circolavano per casa e s'ubriacavano d'Armagnac... Ho passato un pomeriggio a contemplarne una sbronza marcia che girava ininterrottamente intorno a un albero... E un'altra accanto girava in senso contrario, rotazione e rivoluzione... Ognuno di noi, poi, aveva i suoi impegni, altri lavori che lo aspettavano... Così Ferreri lo faceva morire, e lo lasciava libero... I superstiti avevano l'impressione che fosse morto sul serio, si sentivano più soli... Non si trattava di recitare, si viveva la solitudine... Il primo ad andarsene è stato Mastroianni, poi è stato Piccoli, quando è toccato a me, Noiret era addirittura impressionato... Non morire, mi ha detto, io ho paura... Ferreri riesce in simili giochi di prestigio... Lui non ti rifà mai fare una scena... Se la scena non ti è riuscita, sa dove tagliare e ricucire... Ma è difficile che una scena non ti riesca con lui... |
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Il padrino, l'ho fatto per scherzare nel corso dell'ultima notte dell'anno. Ero in smoking con Marco Ferreri, Mastroianni e degli amici, eravamo all'Alcazar. Sono andato al bagno, ho preso due kleenex e li ho messi sotto le guance e poiché so fare "l'occhio da cane" e raddrizzare il mio naso con i muscoli come in certe espressioni di Marlon Brando, mi sono divertito a sparire e poi ritornare imitando Il padrino: quel veglione somigliava davvero alla festa nel corso della quale Marlon Brando danza il valzer. Tutti hanno riso e Ferreri mi ha detto: «Questo te lo faccio fare nel film». Quell'imitazione è stata dunque girata, poiché in seguito si può sempre tagliare, che nel contesto generale sarebbe stata una cosa un po' troppo facile e leggera. Al contrario (e questa è anche una dimostrazione delle capacità artistiche e della sensibilità di Ferreri) l'imitazione s'inserisce perfettamente nel film, più come una cosa triste che come una cosa comica: si trova un senso di decadenza proprio in questa volontà di divertire gli altri e di divertirsi; molte persone, senza riuscirci sempre, cercano il divertimento nel grottesco, in una forma di esibizionismo piccolo borghese. Poiché il personaggio del Padrino è quello che è, la sequenza non ottiene solamente il facile effetto dell'imitazione, ma lascia trapelare una maschera tragica, una maschera di morte, sotto questa piccola trasformazione. |
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Marco Ferreri su Ugo Tognazzi |
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«Tognazzi rappresenta il mio periodo più importante, è la mia giovinezza. È stato il primo amico che ho trovato nel cinema; forse il secondo, dopo Rafael Azcona. Ho fatto con lui tutti i miei primi film, che senza di lui sarebbero stati impossibili. Perché era il mio ideale: uomo e personaggio prima, e solo poi veniva l'attore. Con tutti i pregi, le virtù che ciò comporta dal mio punto di vista: Ugo era il mio ideale perché l'attore era nascosto sotto l'uomo. Proprio il tipo di lavoro che aveva fatto prima, la sua carriera di comico, lo rendeva ai miei occhi fresco, qualcuno con cui era facile e bello lavorare. Pronto per affrontare un tipo di cinema differente. Quei ruoli erano tutti pensati per lui: è stato decisivo per me, ma credo che la nostra collaborazione abbia anche significato l'occasione che a lui serviva, il momento che egli aspettava per 'uscire', per diventare il Tognazzi drammatico oltre che comico che sarebbe poi diventato, il Tognazzi pienamente consapevole della sua grande forza di attore». (da La Repubblica del 30 ottobre 1990) |
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