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BERNARDO BERTOLUCCI |
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Contrariamente alla mie abitudini, questo film me lo sono scritto da solo, in due o tre mesi, e lavorando di notte: mi mettevo a scrivere verso le dieci e proseguivo fino alle cinque, le sei del mattino. Un sogno, "La tragedia di un uomo ridicolo"? Vero, il film comincia con il protagonista Primo Spaggiari, dunque, Ugo che dorme. Si sa, il sonno e il sogno sono un buon viatico per una grande libertà di racconto. Sarebbe troppo frettoloso dire che tutto il film è un sogno, ma è giusto che sul piano metaforico sia presente anche questa possibilità. Quel che ho capito ma solo dopo aver fatto il film, come in genere mi accade è che questo film è una specie di storia di Edipo rovesciata. Lo spunto narrativo è questo. Il figlio di un piccolo industriale che si è fatto da sé viene rapito. L'identità dei suoi rapitori è incerta. Semplici criminali? Estremisti politici, addirittura conoscenti e amici del rapito, che è anche lui di estrema sinistra? Al padre viene chiesto un ingente riscatto. Per pagarlo, dovrebbe impegnare buona parte dei suoi beni, e mettere a rischio il caseificio che ha fondato, e che ora versa in difficoltà finanziarie. Per una buona parte del film, tutto lascia pensare che il figlio sia già stato ucciso dai suoi rapitori; e nell'animo di Primo-Ugo si combattono due forze, due desideri: salvare e ritrovare l'unico figlio che ha generato, o invece sacrificarlo per salvare l'altra sua creatura, il caseificio che è l'opera del suo lavoro; sacrificarlo «come un contadino che usa la morte del figlio per concimare il suo campo» dice una battuta di Ugo. A quell'epoca (il 1980) mi ero reso conto (sempre a cose fatte, sempre dopo) che nei miei film precedenti era presente una componente edipica molto forte. Come si sa, mio padre Attilio è stato un poeta molto apprezzato e molto amato. Un giorno, all'inizio degli anni Novanta, mi disse una frase memorabile: «Furbo te, mi hai ammazzato tante volte senza mai andare in galera». Per la prima volta, dunque, con questo film che è nato pensando a Ugo, invece di identificarmi con un personaggio-figlio mi sono identificato con un personaggio-padre: ecco che cosa intendo quando dico che La tragedia è un Edipo rovesciato, la storia del conflitto di un padre con suo figlio, invece che del figlio con il padre. |
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Ugo l'ho conosciuto attraverso mio cugino Giovanni Bertolucci, l'amato cuginetto della mia infanzia che è scomparso l'anno scorso. Come produttore aveva cominciato con Partner, La strategia del ragno e Il conformista; poi ci siamo separati, e lui ha fatto molte altre cose, da film di Visconti ai primi "Fantozzi". Giovanni era diventato molto amico di Tognazzi, e ancor prima che nascesse l'idea del film, nella seconda metà dei Settanta, mi portò un paio di volte a casa sua, a Velletri. Erano sempre situazioni prive di intimità, con molta gente del cinema. In quelle circostanze non c'erano state occasioni di parlare a tu per tu, ma il germe del film dev'essere nato proprio lì, da un mio sguardo su Ugo; uno sguardo molto lungo e molto attento, ma per così dire uno sguardo da lontano. Lì si è formata la mia prima immagine di Ugo come uno che si porta addosso secoli e secoli di vita e cultura contadina; e questa prima intuizione di lui mi ha accompagnato per tutto il periodo che abbiamo passato insieme. Quanto poi questa mia intuizione fosse fondata sui dati anagrafici di Ugo, non era e non è importante. Nemmeno sapevo da che famiglia venisse, Ugo. Si capisce a prima vista che il film, tutto il film, a partire dalla prima idea, è costruito addosso a Ugo. Ugo come lo vedevo io, naturalmente; perché andando un po' al di là di quella che era la sua immagine convenzionale, in Ugo vedevo un che di arcaico, un testimone vivente di quella civiltà contadina che proprio allora stava per inabissarsi, vittima di quella trasformazione della cultura e della società che, in quegli anni, Pasolini chiamava il «genocidio culturale». Mi ricordo d'aver detto e pensato che la figura di Ugo, con il suo collo corto e il suo rotondo testone padano, mi ricordava certe sculture romaniche che decorano l'esterno dei nostri duomi, delle nostre cattedrali, dei nostri battisteri. In una scena del film, Ugo gira per Parma in bicicletta mentre comincia a nevicare. Guardandolo, pensai: «Ecco, Ugo dovrebbe stare immobile come una statua alla porta di una cattedrale, e coprirsi lentamente di neve...». |
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I suoi inizi professionali nell'avanspettacolo, che è il successore della commedia dell'arte, lo rendevano diverso da tutti gli attori che avevo conosciuto, tranne Tino Scotti che, come lui, veniva dalla rivista, e come Ugo era implacabile nel situare se stesso e il suo personaggio in una zona che non è il naturalismo, non è il realismo psicologico, ma è la zona extraterritoriale del varietà. E questa zona extraterritoriale del varietà ha profonde affinità con il teatro epico brechtiano, perché lì il personaggio nasce come racconto della persona che lo interpreta: attore e personaggio tendono a coincidere. Qualsiasi ruolo interpreti, Totò è sempre e prima di tutto Totò, Macario sempre Macario, e così Ugo è sempre Ugo, come Keaton era sempre Keaton e Brando sempre Brando. In quegli anni Ugo era uno degli attori più celebri e più pagati del cinema italiano, e in quegli anni ha recitato le sue commedie all'italiana più famose. Che cosa mi ha suggerito di proporgli un ruolo così distante dalla sua immagine pubblica? Credo d'aver sentito in lui un'ambizione segreta di cambiare, di esplorare i territori che si stendevano oltre i caratteri più o meno riusciti che interpretava nella commedia all'italiana. Per diventare carne e sangue del personaggio, naturalmente quest'ambizione andava sublimata. E nel film, la difficile sublimazione di questo desiderio gli ha provocato un continuo stato di dolore, come se Ugo si chiedesse continuamente: «Ma è giusto che io faccia una cosa così diversa? E' giusto che io abbia questa ambizione?». Come un attore di teatro drammatico si chiederebbe: «Posso fare la farsa, o tradisco la mia origine?», così Ugo si chiedeva: «Posso fare questo personaggio tanto più ambiziosamente drammatico dei soliti miei, o sono infedele a me stesso?». Io lo sentivo, lo vedevo nei materiali, lo sentivo aleggiare nel film; e nel film diventava materiale per il personaggio, materiale che come sempre cercavo di trasfondere nel film. Quel che mi interessa degli attori con i quali lavoro, al di là della loro storia e delle loro doti professionali, è la persona che ho davanti e che ho scelto. E se l'ho scelta, è perché incontrandola mi ha suscitato il desiderio di andare insieme a lei alla ricerca dei segreti che la fanno unica e misteriosa. Mi è capitato con Ugo e mi è capitato con Brando, con De Niro, con gli altri attori con cui ho lavorato. Non credo che Ugo avesse paura della reazione del pubblico a un personaggio tanto diverso dai suoi; il suo timore era intimo, e riguardava la sua identità, piuttosto che la sua immagine pubblica. Perché lui era, in effetti, un uomo di vera nobiltà, anche se cercava di mascherarla, o se la nascondeva dietro mascheramenti facili ma che in lui non duravano: restavano in superficie per svanire presto. Proprio per questo, proprio per com'era e in fondo sapeva di essere, credo che si sia tuffato volentieri nell'avventura del nostro film. |
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C'è un momento del film nel quale questa identificazione tra Ugo e la civiltà contadina in via di sparizione viene direttamente tematizzato. Quando Ugo, nella torretta della sua casa, copiata dalla torretta del castello di Torrechiara, pronuncia un'invettiva contro i giovani. Quell'invettiva non l'ho scritta io. L'invettiva che Pasolini scrisse quando abiurò la Trilogia della vita, e dice più o meno: «Io mi illudevo che esistesse ancora l'innocenza del sottoproletariato, e invece mentivo a me stesso. Non esiste più, quell'innocenza. Che differenza c'è fra il delitto del Circeo, commesso da pariolini ricchi, e il delitto di Cinecittà, commesso da borgatari poveri? Nessuna. Qui la mostruosità dell'omologazione culturale consumistica. I poveri finiscono per assomigliare ai ricchi, anche nella crudeltà». E lì parte il discorso sul genocidio culturale. «Chi sono questi giovani?» si chiede Ugo con le parole di Pasolini, «non sono più capaci di ridere o di sorridere, solo di sogghignare. Se ti vengono vicino, non sai se vogliono spararti nello stomaco o darti una pacca sulle spalle.» In quel pezzo c'è anche tutto il mistero di quella generazione. Non penso tanto al delitto Moro, ma a quel che è avvenuto dentro a tanti giovani che non sono mai arrivati al punto di uccidere, ma che erano attratti dalla distruzione e dall'autodistruzione. Il titolo, del resto, è ricalcato su quello d'un racconto di Dostoevskij: Il sogno di un uomo ridicolo. Il film è anche un film sul destino misterioso e sulla sparizione di quella generazione: nel finale, Ricky Tognazzi, il vero figlio di Ugo che interpreta il figlio di Primo Spaggiari, ricompare al di là della vetrata di una balera sospesa sui colli immersi nella nebbia, mentre balla con la madre. Ancora senza la scarpa che il padre ha ritrovato sul luogo del suo rapimento e, nel mito, la ferita al piede o alla gamba è lo stigma di chi è sceso nel regno dei morti. Oggi non credo che farei un film su quella generazione. A Carlo di Palma chiesi una fotografia estremamente a fuoco, cosa che non faccio quasi mai; perché, mi dicevo, la nebbia interiore è così fitta che le immagini devono avere una precisione iperrealistica. Questa dimensione brumosa, confusa, onirica, glissante, coinvolge tutto quel che ruota intorno a Ugo. Ugo parte con la sua carnalità, la sua densità psicofisica; e poi, nella nebbia, si alleggerisce, si dissolve, assomigliando via via agli altri personaggi, che sono tutti figure liminari: la moglie francese che però sta a Parma, la fidanzata di Ricky che è anche operaia nella fabbrica di Ugo, il prete operaio; sono tutte figure che stanno con un piede di qua e un piede di là. La connotazione fondamentale è quella dell'ambiguità, una grandissima ambiguità che avvolge tutti e tutto. |
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Per dirigerlo, non c'era bisogno di parlare tanto. A mano a mano che si lavorava, mi rendevo conto che meno indicazioni gli davo e meglio andava. In realtà, il segreto di tutta l'operazione non era quello di condurre Ugo a diventare il personaggio scritto sulla pagina, ma proprio il contrario. Era il personaggio scritto che insensibilmente si avvicinava a Ugo, fino al momento in cui Ugo non avrebbe dovuto fare altro che guardare dentro di sé per scoprire il suo personaggio. In questo processo di avvicinamento, Ugo ha scoperto e provato dentro di sé insieme una forte sofferenza e una grande eccitazione, la sofferenza e l'eccitazione che sempre dà scoprire, fuori e dentro di sé, una terra inesplorata. Ci siamo trovati, insomma, con poche parole. Tutti i sabato sera Ugo dava una cena per la troupe, e naturalmente cucinava lui. Mi ricordo che la seconda settimana di riprese si girava la scena dove lui incontra il prete operaio Adelfo [Victor Cavallo] e vanno insieme in una trattoria di campagna a mangiare pane e salume, «due fettine...» si dice dalle mie parti. Sullo sfondo c'era un cacciatore che sparava a un fagiano. Ugo sbagliava, si impappinava. A un certo punto mi sono accorto che si sbagliava apposta, perché a ogni ripetizione della scena si sacrificava un altro fagiano. Accoppato il numero giusto di fagiani mi disse: «Naturalmente, i fagiani sono per sabato, eh? Ce li mangiamo noi». Ugo aveva una presenza scenica molto speciale: riempiva la scena fluttuando. Forse, con un attore di teatro drammatico tutto il film avrebbe rischiato di farsi pesante, declamato; mentre in lui c'è il pathos, ma il sentimentalismo mai. Quando dalla tolda del suo caseificio guarda con il cannocchiale il bel culo di una contadina che raccoglie i pomodori, Ugo fa un'impagabile faccia da perfetto idiota che esce direttamente dal suo avanspettacolo, dai suoi anni in coppia con Vianello: il bergamasco tonto e ubriacone, o Gregorio il gregario. Gli ho chiesto io di citarsi. Ai registi della mia generazione è difficile resistere alla tentazione di citare; e poi, rammentavo con affetto e ammirazione le caricature di Soldati che facevano lui e Vianello in "Un, due, tre". Prendere in giro Mario Soldati piuttosto che un qualsiasi politico era un divertimento doppio, anche perché Soldati, oltre a essere lo scrittore e il regista che tutti conoscono, era uno straordinario attore. Suo figlio Giovanni faceva l'aiuto regista con me, in Novecento. Quando Mario veniva a trovarlo sul set, diventava immediatamente il centro dell'attenzione per tutti. Magari a due passi c'erano Donald Sutherland o Robert De Niro, ma il centro dell'attenzione generale era Mario Soldati. Quando il film fu dato a Cannes, lui sperava che vincesse il film, e invece io ci tenevo di più che vincesse lui. Quando vinse la Palma d'Oro per il miglior attore fu al di là della felicità, come si può esserlo solo quando superiamo quasi per magia una prova difficile. Poi, il film è andato modestamente, era un film troppo difficile, e a quella delusione col suo pubblico mi chiedo se Ugo non abbia fatto qualche commento stizzito sul film, senza mai farsi sentire da me. La verità è che quando ho visto il suo viso mentre ritirava il premio a Cannes, bastava quel momento per giustificare la nostra fatica, per fare del film un successo. Era estasiato e quasi imbarazzato. Dopo, non ho lavorato più con Ugo. Mi accade di rado di lavorare con gli stessi attori, perché dopo il lungo viaggio che facciamo insieme, devo confessare che per me diventano come miniere esaurite. Mentre so benissimo che saranno miniere ricchissime con il prossimo regista innamorato di loro. |
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