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L'idea di fare un film tratto da "La vita agra" di Luciano Bianciardi piacque tanto ad Ugo che aveva amato molto il libro. Era il 1964, io avevo appena girato Il processo di Verona ma gli sceneggiatori Sergio Amidei e Luciano Vincenzoni sapevano che ero un professionista eclettico in grado di mettere in scena anche storie differenti da quelle che al momento ero abituato a filmare e poi mi conoscevano come una persona in grado di apprezzare l'umorismo e di fantasticare con l'ironia. Tognazzi era un attore di tutto rispetto, sentiva di avere bisogno di sceneggiatori e registi adeguati al suo talento e si comportava di conseguenza. Credo che se si fosse trovato a esordire nel cinema di oggi dopo i primi sketch di successo in teatro o in televisione avrebbe trovato subito un produttore che gli avrebbe imposto di dirigersi da solo in un film, senza badare troppo alla trama ed al contesto. In passato, invece, se veniva fuori una bella idea attori, registi e sceneggiatori si riunivano magari in un ristorante e si mettevano d'accordo facilmente: era un'epoca d'oro in cui al cinema andavano 500 milioni di spettatori all'anno e non i 100 milioni di oggi... All'epoca de "La vita agra" per fortuna sia io che Ugo avevamo una profonda conoscenza di quel mondo milanese di artisti e giornalisti che ruotava tra il quartiere Brera e la latteria Pierovici. Io avevo girato a Milano nel 1946 "Il sole sorge ancora" di Aldo Vergano (di cui ero stato aiuto regista e sceneggiatore) ed avevo assistito alla formazione di un folto gruppo di intellettuali e di artisti spesso venuti da Roma e nel 1955, inoltre, avevo diretto sempre a Milano Lo svitato, il cui protagonista Dario Fo mi aveva introdotto in quella sorta di Saint Germain italiano che rappresentava un po' quello che era stato negli anni Trenta il Caffé Giubbe Rosse a Firenze. Tognazzi e gli sceneggiatori ascoltando i miei racconti si ritrovavano insomma a casa, così come accadeva a Bianciardi che veniva spesso a trovarci sul set. Ricordo che qualche volta io ed Ugo abbiamo avuto anche qualche piccolo, normale conflitto tra di noi ma lui non interferiva mai con le tecniche di ripresa e con i ritmi di lavorazione, tra noi erano rilevanti semmai le concordanze a cui da buon lombardo teneva tanto. Nel nostro film il protagonista era un anarchico che partiva da un piccolo paese della Toscana dove c'era stato un grave incidente in una miniera che tutti imputavano all'incuria della direzione. Il protagonista era una sorta di intellettuale che dirigeva una biblioteca popolare il quale veniva incaricato di vendicare l'incidente preparando un attentato alla sede milanese del gruppo industriale che gestiva la miniera, gruppo la cui sede principale avevamo identificato simbolicamente nel grattacielo Pirelli. Una volta arrivato a Milano, però, l'ambiguità della vita privata (lasciata la moglie in paese, aveva in città una relazione con una giovane amante, interpretata da Giovanna Ralli) lo portava a poco a poco ad integrarsi nella società dei consumi da lui sempre contestata ed a diventare il braccio destro pubblicitario di quel potere che voleva simbolicamente distruggere. Il film fu accolto molto bene dalla critica e dal pubblico e da allora io ed Ugo restammo in ottimi rapporti. Era straordinariamente generoso ed aveva la capacità di prolungare ad oltranza l'orario di lavoro andando a divertirsi senza risparmio con cast e troupe: lo ricordo come un ragazzone immerso nella vita fino al collo. |
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