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TUTTI PER UGO, UGO PER TUTTI |
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A ognuno il suo Tognazzi. "Ugo, nessuno, centomila", titolava un documentario a lui dedicato, realizzato da Massimo Ferrari e Katia Ippaso. Chi lo ricorda come il conte Mascetti di "Amici miei", chi come il ristoratore di "La grande abbuffata", chi ancora come il fascista Arcovazzi di "Il federale" o l'eccentrico protagonista della saga de "Il vizietto". E chi lo ricorda, infine, come un padre. A quindici anni dalla scomparsa di Ugo Tognazzi, o dalla sua "assenza ingiustificata" come la chiama il figlio Ricky, proviamo a raccontare il grande attore attraverso i suoi figli. Per celebrarlo, quest'anno, è stata allestita la mostra, alla quale è abbinata una rassegna cinematografica, che parte all'Auditorium di Roma il 27 Ottobre e si sposta al Museo del cinema di Torino il 3 Novembre. Il percorso si conclude il 14 con una serata al teatro Ponchielli, nella sua Cremona. «Da quando mio papà è scomparso», spiega Ricky Tognazzi, il maggiore dei figli di Ugo, il timido "Paoletto" del film "I mostri", «ho imparato a conoscerlo una seconda volta attraverso i racconti di chi gli è stato vicino nella sua lunga carriera». Un cammino che si articola in oltre 150 film, culminato nella conquista della Palma d'oro a Cannes nel 1981 come miglior attore per "La tragedia di un uomo ridicolo" di Bernardo Bertolucci. Il suo più grosso rammarico, quello di non aver girato "Il viaggio di Mastorna" con Federico Fellini; il dolore, quello di essersi sentito trascurato, a un certo punto, dal nostro cinema. Un affronto che, secondo Gianmarco Tognazzi, è stato all'origine della depressione che lo ha colpito negli ultimi anni della sua vita. «Più che altro», spiega Ricky Tognazzi, «è stato il cinema italiano stesso a trascurarsi dopo il periodo d'oro che aveva vissuto dal dopoguerra agli anni '70. Mio papà e altri grandi attori, come Vittorio Gassman, che erano stati protagonisti di quel momento irripetibile, hanno pagato la successiva crisi, soffrendone anche fisicamente. Era finita un'epoca». Nato a Cremona nel 1922 e morto a Roma il 27 Ottobre del 1990, Ugo Tognazzi è stato uno dei primi uomini in Italia a mettere in pratica il concetto di famiglia allargata: dalla ballerina inglese Pat O'Hara ha avuto il primo figlio, Ricky, che oggi ha 50 anni; da Margreta Robsahm ha avuto Thomas, oggi quarantunenne, produttore, sceneggiatore e regista norvegese; e da Franca Bettoja ha avuto Gianmarco, 38 anni, e Maria Sole, 34 anni. Una famiglia unita sopratutto dalla passione per il cinema, che ha contagiato tutti. Ricky, Maria Sole e Thomas sono registi, Gianmarco è attore. «Ho avuto con mio papà un rapporto a volte conflittuale proprio perché ho voluto fare il suo stesso lavoro», spiega Gianmarco, che sta preparando a teatro "Prima Pagina" di Ben Hecth e Charles Mac Arthur, «quando lui ha visto che avevo l'indole dell'attore ha cercato di scoraggiarmi, perché considerava il nostro come un mestiere precario». A Gianmarco, Maria Sole e Ricky, che vediamo in queste pagine nella casa del regista e della moglie Simona Izzo, abbiamo chiesto di raccontarci l'altra faccia di Ugo Tognazzi, quella familiare. «Nella vita», spiega Ricky, «papà era vulcanico e accentratore, ma poi aveva un fondo melanconico e dei momenti di tenerezza che mostrava nel privato. Soffriva della sindrome del comico che, nato nella rivista, ha sempre cercato di dimostrare di essere un comico a tutto tondo. Allora cercava sempre strade inedite, per questo si è avvicinato a registi come Marco Ferreri e Bernardo Bertolucci. Ma la sua comicità era un dono di natura che elargiva anche nella vita. Ugo è la persona che mi ha fatto più ridere in assoluto». E ricorda quell'estate in cui suo padre, mentre girava "Splendori e miserie di Madame Royale", tornava a casa vestito da donna e ripeteva le scene girate sul set, o quando si metteva ai fornelli e sfornava piatti coraggiosi come il "ganas del maial", la ganascia di maiale, o, infine, quando andava nell'orto di Velletri a piantare un albero di banano e si lamentava che non desse frutti. «Ce ne misero di tempo a fargli capire che a Velletri non c'è lo stesso clima del Ghana», ride il figlio. Ma Ricky colse anche i momenti tristi di Tognazzi, quelli della malattia, della depressione. «Aveva paura della morte e si sentiva vittima di un'ingiustizia. «Sono innamorato della vita e purtroppo credo di non essere più corrisposto», diceva negli ultimi tempi. Per Ricky suo padre è stato anche una guida nel mondo del cinema, è anche grazie a lui che è diventato regista. «Papà venne a vedere il mio primo film, "Piccoli equivoci", nel 1989, e, dopo la proiezione, commosso, disse all'impresario Lucio Ardenzi, seduto accanto a lui: «Sono stanco o il film è carino?». La figlia più piccola di Ugo Tognazzi, Maria Sole, qualche anno fa, alla domanda: «Le ha pesato avere un padre come Tognazzi?», rispose «Mi è pesato di più non averlo», riferendosi agli impegni che lo tenevano spesso lontano da casa. Oggi è una giovane regista, con la pellicola d'esordio, "Passato prossimo", ha conquistato nel 2003 un Nastro d'argento e un Globo d'oro, a gennaio inizia a girare il suo secondo film. «Ho vissuto meno di tutti la vicinanza con mio padre perché è morto quando io avevo 18 anni e, nell'ultimo periodo, aveva vissuto molto in Francia. Fra di noi c'era un rapporto di stima e rispetto, io da piccola ero timida e penso che lui abbia avuto di me l'immagine di una ragazza distaccata. In realtà percepivo chiaramente che la nostra famiglia era diversa dalle altre. Io e Gianmarco siamo cresciuti con la nostra mamma nella villa di Velletri, in mezzo alle pecore, eravamo circondati da famiglie tradizionali, dove il papà tornava a casa dal lavoro presto e aiutava i figli a fare i compiti. Notavo che da noi c'era qualcosa di diverso, mio papà ha avuto figli da donne diverse, era una cosa inusuale in quel contesto». Tornando alla sua frase iniziale, come ha colmato l'assenza di suo papà? «Non l'ho colmata. Mi pesa. Di certo si riflette nel mio lavoro, nei miei film c'è la paura dell'abbandono, dei paragoni. Le leggende su mio papà? Sono tutte vere. Che amasse la cucina è vero, perché mi svegliava alle 7 di mattina e lui stava già friggendo; l'amore per le donne è vero, ma soprattutto il suo era amore per la vita». Maria Sole è una tosta, simpatica ma con una vena triste, come suo padre. «Sì, dicono che caratterialmente gli somigli, ma è più una cosa istintiva, visto che ci siamo frequentati poco». A quali film di papà è più legata? «A quelli che ha girato con Marco Ferreri. Li ho visti dopo la sua morte perché ai tempi ero piccola ed erano vietati. Ricordo che per sbaglio una volta vidi la cassetta di "La donna scimmia": rimasi sconvolta, era un film crudele». Concludiamo con Gianmarco Tognazzi, che ha avuto con papà il rapporto forse più conflittuale. «I contrasti più forti, come dicevo, furono legati alla mia intenzione di fare l'attore. Oggi ho raggiunto questo traguardo, ma senza voler fare l'imitazione di papà, la sua brutta copia, sarebbe irriverente. Già fisicamente si vede la sua matrice, cerco come attore di non approfittarne». Oltre alle discussioni, fra Gianmarco e suo papà c'era anche una bella complicità. «Avevo trovato una chiave per stargli vicino. Mio padre dedicava l'80 per cento del suo tempo libero alla cucina, per lui era una specie di scienza esatta, e faceva delle cene alla quali invitava i suoi grandi amici del cinema. Io volevo partecipare ma spesso venivo mandato a letto, come di solito accade ai bambini. Allora, essendo una buona forchetta, mi offrii di assaggiare tutti gli esperimenti culinari di papà e, ogni volta, mi mostravo sempre più entusiasta dei risultati. Diventai, così, il suo assaggiatore ufficiale. Se per caso si liberava un posto a tavola, per un forfait improvviso, quel posto era mio. In quelle cene mio papà dava vita ai suoi siparietti più gustosi, raccontava aneddoto, faceva battute. Era per me una vera scuola». Poi, anche riguardo alla sua scelta di fare l'attore, Gianmarco è riuscito ad avere la benedizione di papà. «Accadde una sera a teatro. Dopo che da anni cercavo in qualche modo di fare l'attore, contro il parere di mio padre, decisi di ricominciare a studiare da zero e di fare teatro. Preparai uno spettacolo sulla boxe intitolato "Crack". Era un lavoro molto coraggioso e lui venne a vedermi. Alla fine si alzò in piedi ad applaudire, entusiasta, e mi mostrò pubblicamente il suo apprezzamento. Nove mesi dopo morì. Ecco, se oggi faccio questo mestiere con determinazione e senso di responsabilità, è perché quella sera ho sentito mio papà finalmente vicino». |
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