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TEATRO
  - UGO TOGNAZZI E RAIMONDO VIANELLO A TEATRO / IO E UGO
 
     
 
     
 
Io e Ugo
 
     
  In teatro con Ugo  
     
  Era la stagione 1951-'52. Come tutti gli anni, lui doveva fare compagnia, ma per la prima volta aveva chiesto il copione a una coppia di nuovi e giovani autori, Giulio, Scarnicci e Renzo Tarabusi, che l'anno precedente aver vano avuto grande successo con "Chi vuol esser lieto sia", una rivista modernissima di cui parlavano tutti, interpretata da Carlo Campanini e Franco Scandurra. In quella stessa stagione Caiafa, Pelitti, Libassi e io avevamo fatto una rivista senza mattatore, Black and White (Di Garinei e Giovannini. [N.d.C.]), con la famosissima e disastrosissima prima che inaugurava il teatro Manzoni di Milano.  
     
     
  Comici senza volere  
     
  C'erano questi Step Brothers, tre o quattro americani neri, Rosy Barsony, una bella soubrette ungherese, e come seconda donna Eva Bartok. A nostra insaputa, i ballerini neri, per scivolare meglio nel loro numero di step, appena prima dello spettacolo diedero il talco in palcoscenico, cosa che alle prove non avevano mai fatto. Entrano in scena due che facevano un balletto classico, e ci tenevano anche moltissimo, e appena entrati patapam! In quell'occasione poi, per la prima volta s'inaugurò il panorama, un sipario color cielo che si riavvolgeva elettricamente. Non ricordo bene la successione delle cose, ma prima ci fu il balletto classico col cascatone, poi una scena con panettone e madunina dove il capitombolo lo fecero le ballerine col panettone in mano; poi non c'era più bisogno di questo panorama. Il capo macchinista, un piccoletto, a causa dell'antica abitudine coi sipari tradizionali, diede a mano il primo giro a questo panorama, scattò il motore elettrico e lui rimase avvolto, anzi imbalsamato dentro il panorama. Non solo rischiava la mummificazione, ma era lui l'unico a conoscere esattamente tutti i movimenti di scena e di attrezzeria dello spettacolo. Arriva una scenetta con Lili Marlene. C'erano quattro lampioni in scena, e tre non si accesero. Entra la ragazza, si mette sotto l'unico lampione acceso e comincia a cantare. Ha appena cominciato che lentamente, lentissimamente, il solitario lampione illuminato si inclina, e casca. La gente rideva, credendo che fosse tutto premeditato. Poi arriva un debuttante, uno che ci teneva moltissimo, veniva dalla Scuola d'arte drammatica. Doveva gridare "Technicolor!" mentre entrava in scena di corsa. Prese la corda del primo sipario. La prese sotto il mento, come Silvestro in un cartone animato, e fu garrotato e steso a terra. Poi, siccome era tutto modernissimo (s'inaugurava, come ho detto, il Teatro Manzoni), i camerini erano al terzo piano e ci si spostava con l'ascensore, le uniche scale erano scalette di servizio. Ma lo chiamavano tutti in continuazione da sotto e da sopra, questo povero ascensore ultramoderno, così che facemmo tutte scene vuote. Gli Step Brothers restarono chiusi dentro per quel che parve un tempo interminabile, con tutti che li cercavano. «Ma dove sono finiti questi maledetti?». Erano in ascensore. Alla fine del primo tempo svolgemmo il panorama ed estraemmo il capo macchinista. Prima del finale si montava una scena presa dalla "Lezione d'anatomia di Rembrandt", con i medici intorno al tavolo anatomico su cui era stesa la colomba della pace, e noi impersonavamo i rappresentanti dei vari Stati. Eravamo un po' in bilico, perché stavamo in proscenio, e per farlo vedere al pubblico il tavolo era fortemente inclinato; la colomba si teneva stretta perché sennò si ritrovava nella buca dell'orchestra; poi c'era un globo terrestre che girava, e ogni volta presentava un continente diverso. Era previsto che quando si vedeva l'Africa uscissero i quattro Step Brothers, quando si vedeva l'Asia dei ballerini cinesi o thailandesi, ne avevamo di tutte le razze, per questo spettacolo. C'era un segno preciso dove mettere il tavolo anatomico, ma non essendosi ancora ripreso il capo macchinista lo misero troppo indietro. Intanto, dietro il sipario montavano il globo terrestre che, a causa della nostra posizione sbagliata, ci dava tremende botte nella schiena, facendoci rischiare il cascatone in platea. Bene o male il globo gira, esce l'Europa, ed ecco che entrano in scena gli Step Brothers con i gonnellini di paglia da selvaggi africani. Sbagliammo tutti i cartelli, ma proprio tutti, eh? Neanche uno giusto, nemmeno per caso!  
     
     
  La guella delle lose  
     
  Paone, l'impresario, sperava che tutto si sarebbe aggiustato con il gran finale, nel quale facevamo i cinesi: "La guella delle lose". Avevamo due cannoncini ad aria compressa, con le bombole, e sparavamo al pubblico delle rose, anzi delle lose, per magnificare la pace. Durante le prove però le rose si rompevano, e hanno pensato bene di metterle dentro il cellofan: ma fermando i sacchetti, ahimé, con un giro di fil di ferro. Noi sparavamo a più non posso, sperando di risolvere tutto con un gran finale a effetto, ma le cannonate facevano male davvero: c'era gente col sangue che gli colava in fronte mentre noi allegramente e cinesemente sparacchiavamo coi cannoncini, gridando: «La guella delle lose! La guella delle lose!». Con Paone che dal suo palco tuonava: «Fuoco! Fuoco!». Il dopoteatro a Milano fu indimenticabile: ci dividemmo in vari ristoranti per avere il polso della situazione, e dappertutto si favoleggiava sul nostro spettacolo. Il giorno dopo ci riunimmo, e per consolazione dicemmo: «Qui, secondo me c'è una presenza inquietante... non so, io non ci credo ma qua troppe ne sono successe...».  
     
     
  La forza del destino  
     
  Dunque: Tognazzi, che doveva fare compagnia, pensò di prendere noi quattro. Io però ero stato contattato da G&G per fare compagnia con Totò. Con dispiacere mio e di Tognazzi firmai con Paone e G&G. Poi tutti e quattro fummo scritturati da Rascel che faceva un film su Napoleone, io facevo Cambronne (ognuno di noi aveva un ruolo di maresciallo) girandolo a due passi da Torino, a Venaria Reale. A un certo momento Totò decide di non fare più compagnia; i produttori mi spostano su un'altra che però, cominciando prima, mi impediva di fare il film con Rascel che non mi dava gloria e lustro, ma che mi piaceva fare anche per stare con gli altri. E, insomma, ci fu una discussione forte con Paone, una litigata. Dopo di che lo dissi agli altri, gli altri lo dissero a Tognazzi, ed ecco qua. Visto come tutto dipende dal caso e dalle coincidenze? Se Totò non avesse rinunciato, se l'altra rivista non fosse iniziata troppo presto (era "Gran baraonda" con Viarisio), io non avrei fatto la prima rivista con Tognazzi, e non avrei incontrato Scarnicci e Tarabusi, che furono poi sempre i nostri autori. Quella prima rivista dove si formò il nostro gruppo si intitolava "Dove vai se il cavallo non ce l'hai?". La nostra soubrette fu la bella, elegantissima Elena Giusti.  
     
     
  Trac  
     
  Mai avuto il trac da palcoscenico. Anzi, qualche volta alle prime ho fatto una cosa piuttosto tremenda. Si sa che prima della prima sono tutti emozionati, e cercano di trovare quel po' di calma e di concentrazione necessaria per andare in scena senza sbagliare. Io mi mettevo a girare per i camerini e, con la faccia di chi sta per svenire, ripetevo: «Oddio, oddio, mi sento male, mi sento male, non ce la faccio, non ce la faccio...». Insomma, diffondevo il panico fra questi che già tremavano come foglie.  
     
     
  Patatrac  
     
  Poi, passata la prima, mi dicevo: «Adesso, mi devo divertire». E fin dalla seconda replica cominciavo a fare scherzi in scena. Per esempio, in teatro sapevo di avere Ugo in pugno, perché bastava che troncassi una parola, che dicessi doma' invece di domani, per farlo scoppiare in un fourire irrefrenabile. Rammento una volta, credo che fosse in "Campione senza volere", che facevamo una coppia sul tipo del dottor Jekyll e mister Hyde: lui era lo scienziato pazzo, io il suo assistente. Lo spettacolo iniziava con lui che in proscenio, a sipario chiuso, spiegava al pubblico l'antefatto, mentre io lo aspettavo in scena, nel laboratorio stracolmo di provette fumiganti. Bene: Ugo andava in proscenio, cominciava a spiegare, si voltava in direzione del sipario chiuso, gli tornava in mente che là dietro c'ero io, e gli veniva da ridere. Il pubblico non capiva, perché nemmeno mi vedeva. Quando poi il sipario si apriva e lui mi vedeva erano dolori: veniva verso di me senza avere il coraggio di parlare per non scoppiare a ridere, e io stesso, vedendolo sul punto di mettersi a ridere, quasi non osavo spiccicar parola per evitare il patatrac... Fin dal pomeriggio Ugo cominciava a dirmi: «Tu non mi devi stare dietro, sennò lo sai che mi viene da ridere». «Ma come faccio a non starti dietro?». La scena è così, tu stai in proscenio davanti al sipario e dici: «Adesso vado in laboratorio dove c'è il mio fido assistente». Dove vuoi che lo mettiamo il laboratorio, in platea?» Era parecchio difficile arrivare sani e salvi in fondo a quella scena.  
     
     
  Complicità  
     
  Questa complicità fra noi c'era anche fuori scena. Quando andavamo nei locali, ci bastava guardare una persona che si desse un atteggiamento, che avesse un difettuccio, per cercarci con gli occhi e metterci a ridere; a rischio anche di reazioni violente: botte non ne abbiamo mai prese, ma quante volte ci hanno mandati a quel paese...  
     
  Una volta eravamo a casa di Giovanni D'Anzi, musicista di tante riviste e anche autore della famosissima canzone Oh mia bela madunina. In soggiorno, D'Anzi teneva due vasi cinesi molto antichi e molto belli, che avevano un coperchio insolitamente lungo. Un ospite andò a guardarli. «Che belli» disse, «di che epoca sono?». E inclinando un vaso per guardarlo meglio fece cadere il coperchio che andò in briciole. D'Anzi friggeva perché il danno era grosso, ma in quanto padrone di casa non voleva dir nulla per fare il superiore. Allora l'autore del misfatto, ricco ma sempliciotto, tutto dispiaciuto, dicendo: «Se mi dici di che marca sono te li ricompro», capovolse il vaso superstite per guardare il marchio di fabbrica sul fondo: e kaputt anche l'altro coperchio. Io e Ugo ormai ci stavamo rotolando sul divano a forza di fare delle facce buffe e di imitare i due protagonisti della scenetta. Insomma, andò a finire che D'Anzi si sfogò su di noi e ci cacciò di casa dandoci anche dei cretini.  
     
     
  Le canzoni sceneggiate  
     
  Altra cosa voluta dal destino: tra gli sketch di Tognazzi, c'erano delle canzoni sceneggiate tipo Vipera («.., al braccio di colei / che ha distrutto tutti i sogni miei...»). In due stavano seduti su una panchina, e dovevano fare la canzone spiegata: uno si fermava e chiedeva all'altro: «Ma schizzava proprio veleno, questa vipera? E come faceva? E a che distanza lo spruzzo?». E questo attore un po' più anziano di noi, Salvo Libassi, abituato a un altro spirito, perché quello di Scarnicci e Tarabusi era un po' troppo moderno per lui, si scandalizzò e se ne andò offesissimo: lo andammo a riprendere alla stazione di Pisa e lo convincemmo a tornare, ma mise come condizione di non fare Vipera. Allora Ugo mi chiese: «Vuoi farla tu?». Un altro segno del destino. E quello fu un nostro grande successo. Eravamo seduti su questa panchina, vestiti un po' primi Novecento, con la paglietta... si apriva la scena, e il pubblico si metteva a ridere. Alla prima occhiata. Da lì poi fummo chiamati dalla radio, noi e i nostri autori, a fare tredici di queste canzoni sceneggiate. A me fecero fare una sorpresa, le entrate fuori tempo: una volta ero appeso come un angelo, una volta ero vestito da neonatone, tutto fasciato come una mummia. Tarabusi stesso, toscano dall'umorismo asciuttissimo e dalla faccia impassibile, mi dava le intonazioni. Mi raccomandava: «Fai la vocetta nasale nasale...». Io entravo e dicevo, praticamente con il naso: «Dio mio, signori, che peccato, che peccato» e poi spiegavo che sarei dovuto uscire nella scena successiva, ma questi si erano sbagliati. Si ripeteva tre volte, questo tormentone. L'ultima uscita mi pare che la suggerii io. Si sentiva me che cadevo, un gran botto, io passavo in barella e fuoriscena si sentiva la mia vocetta di naso che diceva: «Dio mio, signori, che peccato, che peccato!». I macchinisti a loro volta si divertivano da pazzi a farmi fare dei gran voli quando andavamo nei grandi teatri, dove c'erano i boccascena adatti... andavo a una velocità enorme, precedendo di molti anni l'Ariel della Giulia Lazzarini nella "Tempesta" di Strehler. E queste erano trovate che spezzavano una tradizione... una comicità un po' goliardica, secca, asciutta... ah, si rideva tanto...  
     
     
     
  FOTOGALLERY  
     
 
 
Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi   Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi   Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi
 
   
 
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TEATROGRAFIA
 
 
SCHEDE BEST TEATRO
 
 
UGO TOGNAZZI E RAIMONDO VIANELLO A TEATRO
     
  Io e Raimondo(di Ugo Tognazzi)
     
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RIVISTA E AVANSPETTACOLO
 
     
 
 
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