Famiglia
APPROFONDIMENTI
Ricky Tognazzi
Quali sono i primi ricordi cinematografici che ti legano a tuo padre?
Una delle mie prime scoperte di cos’è il cinema è legata al “Federale”. In quel periodo io vivevo a Milano e venivo a Roma per trovare mio padre, e il mio primo ricordo legato a lui e alla scoperta dell’ emozione cinematografica è dovuto alle visite sul set del “Federale”. Ricordo che una volta assistetti alle riprese di un bombardamento: avevano montato delle torrette, che a me sembravano enormi, e poi passarono degli aerei e simularono un bombardamento: ricordo un pullman, delle biciclette, altre cose… e io ero piuttosto spaventato; e ricordo che mio padre si agitò per questo fatto e si arrabbiò, dicendo ai tecnici che avevano esagerato. Ma soprattutto ricordo un’altra emozione molto forte, legata alla volta che andai al cinema assieme a mio padre a vedere il film finito e a un certo punto c’era la famosa scena in cui lui è vestito da federale e lo picchiano: io ero bambino e vedendo mio padre lì sullo schermo che viene picchiato fui preso da un’ansia terribile; ma poi lo vedevo lì, vicino a me che mi tranquillizzava, mi diceva che è solo un film; e poi io ero stato anche sul set e avevo visto come si girano le scene… Sicché ricordo questo misto di emozioni, questo concatenarsi di eventi che fa sì che il cinema mi si riveli in tutte le sue forme: nel suo manufatto, nella sua visione e nella sua finzione, nella sua forte emotività…
Sembra quasi che nell’emozione del cinema tu abbia vissuto un po’ l’angoscia del piccolo Bruno nel finale di Ladri di biciclette, quando vede il padre malmenato…
Ma, tornando al set, com'era tuo padre durante le riprese?
Lui sul set nei miei confronti era un padre: sai com’è, veniva suo figlio a trovarlo al lavoro e c’era l’affetto e l’esibizione, la presentazione della troupe, che poi per un bambino era sempre qualcosa di affascinante. Al di là dei costumi che lui indossava di volta in volta era vestito da sceriffo piuttosto che da donna o da poliziotto, c’erano i suoi compagni di lavoro che erano dei tipi straordinari per un bambino: macchinisti che maneggiavano i martelli come le pistole, che sapevano fare giochi di prestigio o battere un chiodo con due colpi netti, piuttosto che lanciare i chiodi da dieci come coltelli; oppure gli elettricisti forti come Ercole che portavano dei proiettori immensi sulle spalle; gente con strani cappelli; fotografi con quattro o cinque macchine al collo… Questi ricordi però a un certo punto coincidono con le tue prime esperienze di lavoro. Certo, e io ne andavo molto fiero. Non tanto del fatto di fare il cinema, quanto del fatto che lavoravo: mi vantavo molto d’aver guadagnato i miei primi soldi. In quel periodo feci l’episodio di Gregoretti di “RoGoPaG”, “Il pollo ruspante”: ero il figlio di mio padre, cosa che tra l’altro si ripeterà negli anni, perché poi vennero “I mostri” e via via altre esperienze che vanno da “La tragedia di un uomo ridicolo” ad “Arrivano i bersaglieri”. Insomma una serie di film dove mio padre coglieva l’occasione di avermi accanto nella finzione e io mi divertivo molto ad accettare. Per cui alla fine l’album di famiglia che mi manca a casa in qualche modo è sullo schermo e nell’immaginario della gente…
Che ricordi hai di quelle esperienze?
Sono ricordi molto lucidi, anche se io ero piccolino: mi ricordo la fatica e l’impegno, nel senso che poi il cinema è un grande gioco, certo, ma è anche una grande fatica. Mi ricordo una giornata durante le riprese de “l mostri” che la mattina mi svegliai e non volevo andare sul set perché non mi sentivo bene. E mio padre mi tirò giù dal letto e mi disse: «Qui mica siamo a scuola, sai? Questa è una roba seria, stai lavorando, ci sono cinquanta persone che ti aspettano sul set, forza alzati e non fare storie». E io mi sono vestito, sono arrivato sul set, abbiamo girato, poi mi son messo in macchina e ho vomitato… Però mi sono alzato e ho girato, anche se poi, quando mio padre ha visto che stavo male veramente, gli sono venuti i sensi di colpa… Mi ricordo che quella mattina girammo la scena in cui prendiamo il senso unico e mio padre mi dice di fare le corna al tizio al quale per poco non andiamo addosso. E in effetti se guardate attentamente il primo piano in cui io faccio le corna vi accorgete che non stavo proprio bene…
Com'era tuo padre sul set? Che atteggiamento aveva durante il lavoro?
Era una persona molto calda, nel bene e nel male. Nel senso che è sempre stato un collaboratore molto attivo nella fase creativa, era sempre presente in modo forte sul set, anche quando lavorava con registi forti, non tirandosi mai indietro di fronte alle sue opinioni: se riteneva che una cosa funzionasse meglio, la esprimeva e la difendeva con grande calore. Naturalmente dipendeva anche dal regista che aveva di fronte: se era uno che stimava o col quale c’era amicizia, tutto ciò era all’insegna del divertimento, delle risate, che poi servono a sciogliere la tensione sul set; se invece lavorava con registi che non stimava, allora era dura, la lavorazione era all’insegna delle polemiche, delle lotte, delle liti… Ho assistito in più di un’occasione a degli scontri fortissimi sul film, dove l’esperienza filmica diventava una sorta di battaglia, anche se mai all’insegna del personale.
Ti ricordi qualche caso in particolare?
Anche film che poi sono stati dei grandi successi: “Il vizietto”, per esempio, ha avuto una lavorazione violentissima, sulla sceneggiatura, sul modo di impostare le scene, sul personaggio, persino sul titolo, che a mio padre non piaceva per niente, gli sembrava riduttivo, in contraddizione con un film che comunque è all’insegna dell’ apertura mentale nei confronti dei gay, soprattutto se si considera che fu fatto in un’epoca in cui fare un film sugli omosessuali era un forte tabù, ma non per ragioni moralistiche, quanto per ragioni di mercato: si diceva «i froci al cinema non vanno»… Ed è stato proprio col successo del “Vizietto” che poi è scattato un trend assolutamente diverso.
Lui, del resto, qualche anno prima aveva già fatto con Caprioli “Splendori e miserie di Madame Royale”…
Mi ricordo che quella fu un’estate in cui mio padre tornava a casa completamente donna… Mi ricordo che io ero ragazzetto e passavo queste serate in cui lui era donna, perché ripeteva continuamente le scene fatte sul set del film, e io stavo lì e mi sorbivo queste performances ridendo molto, ma anche preoccupandomi per questa metamorfosi di un’estate in cui mio padre si comportava sempre come una donna: si muoveva, parlava, rideva come una donna… Tra l’altro l’ho rivisto di recente e l’ho trovato bello, importante anche, forse non perfettamente equilibrato ma bello, peccato che fu un completo disastro sotto il profilo commerciale.
Tornando alla tua esperienza di piccolo attore al fianco di tuo padre, ci può raccontare qualcosa del Paoletto de "I mostri"?
Il mostro de “I mostri”… Intanto va detto che la partecipazione di mio padre al film passò per un piccolo ricatto nepotistico, perché, quando glielo proposero, lui disse che accettava a patto che gli lasciassero interpretare un episodio che sapeva essere destinato a Gassman ma che lui voleva assolutamente fare insieme a me, ed era proprio l’episodio di Paoletto… Poi mi chiese se avevo piacere a fare questa cosa e io naturalmente ne fui felice, anche perché stare con mio padre sul set e recitare per me era molto divertente, senza considerare il fatto che ero contento di non andare a scuola…
In quell’episodio, poi, c’è una scena alla quale sono molto affezionato, perché rappresenta un po’ l’avverarsi di un sogno che è di tutti i bambini che hanno i genitori separati. È la scena in cui io torno da scuola con l’occhio nero e a tavola mio padre s’arrabbia con me perché mi sono fatto menare invece di menare per primo. In quella scena a portare il caffè a fine pranzo arriva una bellissima signora che è mia madre, quella vera, che era già separata da mio padre, ma era a Roma ad accompagnarmi e fu utilizzata per quel ruolo… Per cui in quella scena c’è un quadro familiare anacronistico, che fa parte della finzione cinematografica, ma che poi è anche il segno di un’affettività forte, nonostante il travaglio e la durezza di qualsiasi separazione.
E poi mi ricordo la scena sulla Cristoforo Colombo, questo finto ingorgo creato con una ventina di macchine, che rappresenta un po’ l’inizio del mio rapporto con i trucchi cinematografici, la finzione: al momento non capivo bene cosa stavamo facendo con dieci macchine intorno, poi quando ho visto la scena girata ho capito che era un ingorgo.
Com'era la quotidianità sul set per un bambino come te?
Era segnata da un rapporto un po’ goliardico e cameratesco e un po’ professionale, ma era pure all’insegna di una forte affettività con la troupe, che poi è una cosa vera sempre, non era solo l’atteggiamento nei confronti di un bambino che viene sul set. È una cosa che provo anche oggi, perché io sento la troupe proprio come una “truppa”, con la quale tu intraprendi un viaggio molto faucoso, difficile, a volte burrascoso, ma che è all’insegna di una forte fisicità, del dover stare tutti insieme, uniti: il mangiare, i cestini, il freddo, la fatica, le risate, gli scherzi… I miei primi ricordi cinematografici sono anche segnati da questa forte comunità: “er cipolla”, “er patata”, gli urli, il romanesco… Io poi venivo dalla scuola a Milano fatta coi preti, capirai…
E durante le riprese com'era con te? Come mediava il tuo rapporto col set, ti dava consigli? Era lui a dirigerti, a darti le istruzioni?
Lui mediava, hai detto bene. E lo faceva all’insegna della praticità e della naturalezza, insomma della facilità di fare una cosa tutto sommato semplice: arrivare a quel segno, guardare fuori dalla finestra, fare un faccia triste… Perché poi facevo quella faccia triste, chi vedevo al di là della finestra e tutto il resto, questo si capiva dopo, sullo schermo. La sua mediazione, insomma, passava per la semplificazione di quella che era la tecnica della recitazione. Ma passava anche per il contatto fisico, nel senso che la macchina da presa stava lì, ma l’attore con cui stavo lavorando, quello che mi teneva per mano e faceva il ruolo di mio padre, era davvero mio padre. Sicché diventava anche una cosa naturale ricevere degli ordini da parte di tuo padre… Certo, poi ho anche dei ricordi molto vivi sia di Gregoretti che di Risi, non avevo dubbi che i boss erano loro.
Insomma, è stato questo il suo modo di avviarti al cinema. Dopo quegli anni, in realtà, sono andato in Inghilterra a fare le medie superiori. Qui esprimo la volontà pilotata anche un po’ da mio padre, in verità… di tornare a studiare in ltalia, e scelgo di frequentare la scuola di cinema di Roma, il Cine TV che è un istituto tecnico professionale. Il corso era di segretario di edizione e produzione, ma il sogno era quello di diventare aiuto regista e poi, chissà, magari di debuttare nella regia. Per cui diciamo che il mio avvicinamento al mezzo è un avvicinamento di vita: mio padre faceva questo lavoro, che per un bambino è molto affascinante, e quando sono arrivato all’età delle scelte non è certo mancata l’attrazione forte per il mestiere dell’attore, per quanto ci fosse il timore di dovermi confrontare direttamente con lui. Fu mio padre stesso, del resto, a darmi lo stimolo a non adagiarmi unicamente a fare l’attore e pensare anche alla regia, più che altro per l’idea di conoscere la macchina cinema nella sua complessità.
Credi che sia per questo motivo che ha voluto dirigere alcuni film?
Era una delle tante sfide che faceva. Devo dire però che a differenza di suoi colleghi come Sordi e Manfredi, che hanno fatto i registi più per comodità pratica, le scelte di mio padre sono tutte assolutamente bizzarre. I suoi sono film che non gli sarebbero mai stati offerti: dal “Fischio al naso” ai “Viaggiatori della sera”, passando anche per film con intenzioni meno nobili come “Cattivi pensieri”, che rientra in qualche modo nella commedia sexy di quegli anni, ma ha anche una struttura narrativa complessa, fatta di sogni, flashback, immaginazione… Credo comunque che abbia preso il fatto di fare il regista come l’opportunità di sviluppare delle argomentazioni insospettate e inusuali per lui. E infatti quasi tutti i suoi film poi vanno male, non solo perché magari non sono riusciti allo 0%, ma perché affrontano tematiche strane e coraggiose come la morte. Quando faceva il regista, comunque, c’era in lui un nervosismo, una tensione diversa da quando girava i film come attore, sentivi proprio che si confrontava con una materia che lo faceva soffrire di più. Amava molto il “fantasociale”, va detto, l’idea delle ambientazioni futuribili. Lo attirava molto l’idea della modernità e infatti aveva una collezione di arte del primo ‘900 italiano e non si perdeva mai le mostre. Sì, credo che fosse attratto dal moderno, strano per un uomo padano come lui, terrigno, edonista, legato alla cucina e invece poi di gusti molto raffinati. Forse era una sorta di rivalsa di un uomo che non aveva avuto l’opportunità di studiare da giovane.
Dei cinque film che ha diretto, qual era quello che amava di più?
Difficile dirlo, credo che “Il fischio al naso” sia stata l’impresa che ha affrontato con più passione, serietà e senso alto della sfida. Io trovo interessante anche “I viaggiatori della sera”: intanto la Vanoni è bravissima e poi mi piace l’intuizione, che in qualche modo si è avverata, di pensare alla generazione dei giovani di allora, siamo nei ’70 , immaginando che, dopo venti, trent’anni, diventano gli anziani del futuro e si portano appresso tutte le sintomatologie, i vizi e i gusti di un mondo post-sessantottino, trovandosi ad avere a che fare con una generazione di giovani molto più rigida, quadrata e conservatrice di loro. Che è una cosa accentuata nel film rispetto al romanzo di Umberto Simonetta.
A proposito di rapporti tra generazioni, che padre era Ugo?
Era un padre amico. Magari a volte era anche un padre “violento”, ma la sua era una violenza verbale, anche perché aveva questa voce forte. Mi ricordo liti, punizioni: naturalmente i sentimenti forti non sono certo mancati, ma non era affatto manesco, al massimo ti dava qualche scappellotto per richiamarti…
Del resto è stato anche un padre che aveva un punto di vista privilegiato, perché ha vissuto gli anni Sessanta e la rivoluzione culturale e sociale di quel periodo in netto anticipo su tutti gli altri. E in questo senso mi è venuto a mancare un padre da “uccidere”, a cui ribellarmi: la mia ribellione nei suoi confronti arriva tardiva, le discussioni, gli scontri ideologici gravi nei suoi confronti non sono avvenuti come nelle famiglie tradizionali, tra i 14 e i 18 anni, ma quando ormai avevo più di vent’anni. Sì, certo, c’erano le liti legate alla scuola, del tipo hai studiato, hai fatto sega etc., però quel conflitto, tipico tra l’altro dei primi anni ’70, per me avviene più avanti, a metà dei ’70.
E questo perché ho di fronte un padre democratico, per così dire, un padre che è stato negli Stati Uniti prima del ’68 italiano: va a fare “Una moglie americana” nel ’65 e torna dall’America con tanti gadget e con un macchinone americano pazzesco, che ben presto diventa una sorta di incubo perché per sdoganarla ci volle un anno e poi, ovviamente, non funzionava più niente… Però, oltre a portare l’America del consumismo e del grande sogno, porta anche l’America dei dischi di Woodstock, la sua esperienza della visione della guerra in Vietnam, i ragazzi, gli hippy, le canne… Magari s’è pure fatto un acido lì, chi lo sa…
Insomma, voglio dire, ha fatto pure un film in cui c’erano quelli delle comunità, coi capelli lunghi, e parliamo dei primi anni ’60, in anticipo rispetto ad avvenimenti che in Italia verranno assimilati in seguito. La sua amicizia con persone come Ferreri fa sì che il mio confronto sia stato con una figura paterna che aveva dentro di sé una serie di esperienze che io avrei vissuto dopo dieci anni. Ebbe insomma il vantaggio di aver avuto una sorta di flashforward rispetto all’iconografia della famiglia dassica italiana di quegli anni, che era una famiglia di estrazione borghese, cattolica, timorata di dio, cresciuta con la Rai di Bernabei e con tutte quelle autocensure che poi gli anni ’70 hanno interamente sgretolato.
Insomma, una persona che ha avuto delle idee molto chiare, prima ancora che delle ideologie.
Politicamente subisce l’influenza di quegli anni caldi, ma comunque ha tendenzialmente dentro di sé una forte carica anticonformista. Odia il conformismo, anche quello di un certo tipo di sinistra di quell’epoca, per cui si ribella anche a quella. Ma poi ci sono le sue amicizie cori Marco Ferreri, con Elio Petri, con tutta un’intellighenzia di sinistra molto combattiva, che lui segue anche se non in modo rigoroso, come invece fece Gianmaria Volontè, per il quale divenne una missione di vita, ma con un senso d’irritazione. Ogni tanto sentiva d’essere in qualche modo strumentalizzato, d’essere come ricattato e dover per forza aderire a battaglie e cose con non riconosceva sino in fondo come sue…
È questa ribellione che lo porta alle foto come capo delle Brigate Rosse per "Il Male"?
Lì rivendica il “diritto alla cazzata”, come disse in un’intervista. Di sicuro si rese conto della gravità e della provocatorietà del gesto, anche se poi la storia gli darà ragione. Perché quel gesto fu fatto in seguito al famoso 7 aprile, con l’arresto di Tony Negri e degli ideologi di Autonomia che vengono incolpati di essere i capi delle Brigate Rosse, cosa che poi storicamente si è rivelata un teorema assolutamente falso. Comunque, se politicamente quella cosa fu creata e fatta dal gruppo de “Il Male” e dal nostro amico Sandro Parenzo, in realtà divenne anche, in qualche modo, uno strumento per avvicinarsi a me. Come dire: «sono più anticonformista io che ho cinquant’anni di te che ne hai venti! Cosa mi vuoi insegnare?»…
Tu hai intrecciato la tua carriera con quella di tuo padre a partire dal pieno dei '60 sino a tutti gli '80: com'era cambiato negli ultimi anni, sul piano professionale ma anche su quello personale?
Sul piano professionale il cambiamento è stato relativo, nel senso che aveva sempre quest’ansia dimostrativa, per cui inseguiva i progetti importanti con l’emozione di un bambino. Io ricordo chiaramente che stavamo girando con Luigi Magni “Arrivano i bersaglieri” e lui un giorno mi prese da parte e mi disse: «Non lo dire a nessuno, ma forse, dico forse, faccio un film con Bertolucci». Ed era emozionato come un ragazzo al quale offrono un film importante. La stessa cosa quando, in seguito, fu chiamato a Parigi da Strehler, che era il direttore della Commedie Française, per fare in francese i “Sei personaggi in cerca d’autore”: per lui si trattava di dimostrare che in Francia era considerato un grande attore e che lavorava per la Commedie Française. Aveva il senso della precarietà di questo lavoro, in cui mai nulla è certo e continuava a dire in modo scaramantico «forse questo è l’ultimo film che faccio, chissà se me ne fanno fare altri»… Che è stato anche un modo di essere lucido nelle sue scelte, accettando per esempio assieme al film di Ferreri pericoloso anche la commedia che, almeno sulla carta, era destinata ad andare bene commercialmente. Questo, però, evitando di ripetere il successo dell’anno precedente, che è una cosa che gli ha sempre dato fastidio, perché era uno che ha sempre tentato di trovare progetti che in qualche modo esprimessero una novità.
Poi, negli ultimi anni, siamo stati male un po’ tutti: gli ’80 sono stati anni difficili, il cinema ha cominciato ad andare male davvero. A mio padre venne una forte depressione, iniziò a doversi misùrare con degli insuccessi tangibili, nel senso che ha fatto due o tre film che proprio non hanno funzionato. Sono stati anni sofferti, ma all’insegna della grande battaglia perché lui non ha mai abbandonato questo spirito di lotta. La verità è che questo è un lavoro all’insegna della sfida perenne, se viene a cadere questo è come la caduta del desiderio, e allora entri in un tunnel buio.
A proposito dell’offerta di Bertolucci di interpretare “La tragedia di un uomo ridicolo”, forse nella cautela con cui ti comunicò la cosa c’era un po’ il ricordo dell’occasione mancata con Fellini per “Il viaggio di Mastorna”.
Ai tempi del Mastorna io ero ragazzino e mi ricordo gli incontri con Fellini. Fu un sogno e da allora lui ci insegnò a non cantare vittoria troppo presto, a non parlare mai delle cose sino a quando non si fanno veramente. Mio padre aveva firmato proprio un contratto, lui rimase fermo un anno ad aspettare, poi il film non si fece mai e alla fine vinse la causa: prese i soldi, ma insomma… Del resto quello non fu un sogno solo per mio padre, ma soprattutto per Fellini.
Secondo te, perché gli dispiacque tanto veder sfumare l’occasione di lavorare con Fellini? A lui del resto non mancavano certo le collaborazioni prestigiose.
Credo che lui vivesse quella che io chiamo la sindrome del comico, e cioè la considerazione di se stesso, in quanto comico, come attore di serie B, che non ha tutte le carte in mano. Che forse era una cosa dovuta al giudizio del pubblico e della critica, anche perché poi, tra sé e sé, di fatto sapeva che il comico non solo ha tutte le carte in mano, ma ha anche i due jolly, insomma gioca con 54 carte. La sua infatti è stata sempre una carriera dimostrativa, con se stesso e con gli altri, tutta tesa a far capire che lui era anche un grande attore. E di qui venivano le scelte coraggiose, ma anche quelle sbagliate: non si è mai tirato indietro davanti agli esordi così come alle scelte bizzarre. Ha fatto debuttare registi come Massaro e Leto, in qualche maniera ha fatto esordire anche Ferreri, questo signore con la barba che non era considerato proprio normale, lo chiamavano “il matto”; gli dicevano «ma come, fai il film con il matto?». E Ugo, insieme a Marcello Mastroianni, è stato tra i primi a capire la genialità di quest’uomo che poi è diventato un grande maestro, e a rischiare.
Marcello Mastroianni: quel era il suo rapporto con lui?
Si scambiavano i film… Tanti lavori che Marcello ha rifiutato li passava a Ugo. Era proprio lui a dirlo: «Questo fatelo fare a Ugo, ché poi tutti i film che rifiuto io e fa lui sono dei grandi successi». Ed era vero: vedi “Romanzo popolare”, che era scritto e destinato a Mastroianni…
A proposito di film rifiutati: è vero che Tognazzi rifiutò Nuovo Cinema Paradiso?
Questa è una cosa che non ho mai sentito. Sinceramente, non credo: lo avrei saputo, ero il figlio con cui maggiormente scambiava le opinioni sulle cose della professione. Può essere, ma non credo, anche perché Tornatore veniva dal “Camorrista” e ricordo che Ben Gazzara, che in quegli anni andava per la maggiore in Italia, ce ne parlò come di un regista giovane ma molto bravo, e mio padre da questo punto di vista non era certo distratto: se gli fosse arrivata una sceneggiatura meravigliosa come quella di “Nuovo Cinema Paradiso” col nome di Tornatore non credo che l’avrebbe rifiutata e comunque si sarebbe ricordato delle parole di Gazzara. No, sono altri i film che Ugo ha rifiutato…
Te ne ricordi qualcuno?
A un certo punto entrò in lite con Ferreri e rifiutò “Ciao maschio”. Fu durante un’estate molto triste, all’insegna di un divorzio. Mio padre doveva fare la parte che poi fu di Mastroianni, solo che, come al solito quando si lavorava con Ferreri, la sceneggiatura non arrivava mai. A un certo punto Marco stava già in America, arriva la sceneggiatura e Ugo, un po’ in polemica per quello che a lui sembrava un piccolo ruolo, un po’ per gelosia nei confronti di Depardieu, gli manda a dire di no. Psicodramma terribiIe, ma Ferreri risolve immediatamente chiamando Mastroianni, che accetta dando uno schiaffo morale a Ugo. Insomma un’amicizia incrinata tra Marco e mio padre, una cosa che è durata anche a lungo ma che poi è rientrata. Da parte di mio padre fu davvero una cosa di gelosia affettiva, come dire «ma come io ho fatto tante cose per te quando avevi bisogno e adesso mi chiami a fare questo ruoletto in un film con Depardieu protagonista». Che poi non era vero, perché se lo vedi ti accordi che quello è il classico film di Ferreri, dove anche il ruolo di Mastroianni è importante…
Ma anche quando Ferreri chiamò Gazzara a fare Bukowski in “Storie di ordinaria follia” Ugo si ingelosì molto. Mi ricordo che organizzò una cena per Marco, Ben Gazzara e sua moglie, Jacqueline, una tipica donna americana, bionda, molto appariscente, ma una signora per bene. In pratica lo scopo di Ugo con quella cena era di dimostrare a Ferreri che era lui il vero Bukowski, per cui, senza dirlo mai, mio padre passò tutta la sera a comportarsi come Bukowski: nel suo rapporto con il cibo, nel preparare le cose più assurde, nel comporramento. Con Gazzara che non capiva e Marco piegato in due per le risate. A un certo punto, infervorato da uno dei suoi aneddoti, indossa un tanga di paillette color verde ramarro che aveva regalato a sua moglie Franca e lo alza a tavola, di fronte alla moglie di Gazzara, lasciando vedere un coglione che gli era uscito da una parte… Il tutto all’insegna della goliardia e del divertimento…
Insomma, un grande interprete anche nella vita.
Sì, Ugo era un grande narratore di aneddoti. E la cosa più singolare è che aveva delle chiavi di racconto che erano quasi sempre all’insegna dell’autodenigrazione… Per cui si lanciava in grandi racconti di avventure sentimentali dove però alla fine lui ci faceva una pessima figura. Oppure rievocava esperienze professionali dove alla fine era il perdente. Del resto quello che lo animava era più che altro un affetto profondo per l’esperienza vitale quotidiana. Non altro.