Famiglia
APPROFONDIMENTI
Maria Sole Tognazzi
Maria Sole, figlia di Ugo, racconta il suo film sul grande mattatore
L’edonismo e gli odori, le donne, i figli sparsi come pezzi di carta e le fughe, i viaggi e quell’accento padano da piegare attraverso grandi guerre, federali, marce su Roma, voglie matte, golpisti, complessi e nuovi mostri. Maria Sole Tognazzi, figlia di Ugo, non lo conosceva bene. Lui se ne andò distrattamente venti anni fa, lasciando i vestiti dell’imperatore nel camerino e 140 film, definitivi o dimenticabili, segno distintivo di una bulimia incontinente, in cui alla curiosità doveva seguire l’azione. Ilare e cupo, eccessivo e all’improvviso, traversato da una malinconia senza ragione, riflesso dei tanti fiumi intravisti in una giovinezza umile.
Pragmatico, Ugo disseminava in pianura smorfie e sorrisi che, moderno pollicino, lasciava come sassi sulla strada. Maria Sole che in una famiglia di attori, ha scelto di stare dall’altra parte della lente, ha messo insieme i fotogrammi di un’esistenza picaresca e senza pentimento, in un documentario che vedrà la luce in un Festival. Cannes o Venezia, più probabilmente, perché “Ritratto di mio padre”, titolo provvisorio, “non è ancora concluso” e conoscere un padre,svelarne l’essenza, raccontarne i lati oscuri, è molto più di un’analisi freudiana. “Ugo era un enigma, soprattutto per me. Di lui ho pochissimi ricordi concreti. Papà morì quando avevo diciott’anni, ma negli ultimi tempi, nella mia delicata fase adolescenziale, si era già trasferito in Francia. Non c’era mai, Ugo e comunque, non era il tipo di padre che chiedesse ai figli un’approvazione del mestiere che aveva scelto come compagno d’avventura. Le mie memorie sono tutte personali”.
Per questo, chiudersi in moviola con Matteo Rovere, il giovane complice di questo viaggio al termine della notte, ha rappresentato un’occasione che andava al di là dell’impresa. “Sono andata a studiarlo da un punto di vista professionale. Io Ugo l’ho scoperto tardi. Solo quando morì, ogni cosa mi apparve chiara”. Lo choc che fa luce, il trauma che rende tutto comprensibile. “Mi dissi: ‘Ma io di quest’uomo non conosco neanche l’opera’”. Bella come la madre Franca Bettoja, ultima moglie di Ugo, Maria Sole Tognazzi ha un pudore anacronistico. Pesa le parole, detesta l’iperbole. Semplice, come sarebbe piaciuto al patriarca. Niente paroloni, sbarra abbassata sulla metafora. Edificare l’apologia postuma del padre, comunque, non l’appassionava. “Di mio non l’avrei mai fatto per una questione emotiva. Mi avevano già chiesto di descriverne la figura in passato, ma non me l’ero sentita”. Stavolta è andata diversamente. Nel descrivere il grande bugiardo e il suo rapporto con la verità, si è attenuta ai fatti.
“Mio padre era un uomo estremamente onesto, straordinario perché pieno di difetti e quelle stesse increspature caratteriali che da piccola mi potevano irritare, prima fra tutte il costante tradimento nei confronti di mia madre, che da bambina mi faceva soffrire, nell’età adulta mi è apparso come la naturale fragilità di una persona che conduceva un’esistenza zingaresca, mantenendo comunque salda la protezione nei confronti di mia madre Franca”. Respira, riparte. “Ho cercato di mostrarne senza manicheismi o santini le sfaccettature. Mi sarei annoiata e a lui, non sarebbe piaciuto”. Quindi nel film, tra le maglie larghe di un mestiere che negava alla radice la stanzialità, Maria Sole ha inserito le immagini inedite, ritrovate nella casa di Velletri, quella in cui abita ancora il fratello Gianmarco, rigido custode della memoria paterna. Così, diseguali, ballano materiali d’archivio, conversazioni con i registi viventi che con Tognazzi avevano diviso cestini da set e notti ribalde (Avati, Bertolucci, Monicelli, Lizzani, Scola) e poi i super 8 di famiglia. “Sapevo che esistevano, ma non sapevo dove fossero”. Gianmarco li trovò per caso e li conservò. “Io li ho visti e ci ho trovato di tutto: i viaggi a Mosca con Marco Ferreri, quelli in barca con Albert Finney, le donne, gli amori, i dolori, gli incontri e poi il primo incontro tra i miei genitori, 10 anni prima che si mettessero insieme. Erano gli anni ’50, mamma era appena maggiorenne e aveva girato l’Uomo di paglia con Germi”.
Lui, un provinciale reduce dal grande successo televisivo con Vianello e Walter Chiari. Lei, bellissima e riottosa: “Lui la corteggiò senza ritegno, ma per un lungo periodo, inutilmente”. Nel film, soprattutto, brilla un esperimento coraggioso: “L’omaggio sentimentale di una figlia che l’ha frequentato poco e cerca attraverso gli occhi degli altri di ricostruire i frammenti di un discorso amoroso”. Ugo il semplice, l’ex operaio alla “Negroni”.
“Era un uomo privo di sovrastrutture, talmente diretto da risultare a volte sgradevole. Non fingeva di essere un intellettuale perché non lo era, ma cercava un’evoluzione, con Pasolini, Ferreri, Bertolucci e con tutti quelli in cui riconosceva un pozzo a cui attingere senza risparmio. Amava imparare, scoprire, era curioso”. Un ragazzino. “Anche a 60 anni, viveva con gli stessi dubbi che aveva a 40. Con Bertolucci (con il quale in età matura nel 1981, con La tragedia di un uomo ridicolo vinse il premio come miglior attore a Cannes, ndr) esattamente come a 40 anni, quando girava con Luciano Salce. Io la chiamo umiltà ma è colpa del mio vocabolario, ma la parola è diversa”.
Si ingozzava, Tognazzi. L’arte culinaria è la più indiscreta. Non si può fingere, mediare, scandagliare il compromesso. Lui riuniva gli amici, indossava il cappello da cuoco e come nella grande abbuffata di Ferreri, il piano sequenza più fedele della sua vita (con le galline libere per il set e ubriache di Armagnac, i corpi sfatti, il gaudio che traligna fino a sfiorare la morte) e i due amici, reciprocamente indispensabili: “Marco Ferreri è il regista che più gli ha dato e con il quale Ugo ha recitato, uscendo dall’obbligato registro comico, come con nessun altro”. Affondava nei sapori, Tognazzi. Cucinando metti a disposizione il corpo. Lui preparava dieci assaggi di pastasciutta e la moglie Franca, per protesta, divorava un piatto surgelato. “Amava cucinare e come nel cinema, inventare composizioni molto rischiose. Così come decideva di fare il film di un esordiente, correndo magari l’azzardo di apparire in un’opera modesta, così tra i fornelli giocava con l’accumulazione sconsiderata”. Gli amici in “Ritratto di mio padre” si sfogano: “In fondo non cucinava troppo bene”. Se chiedi a Maria Sole che padre fosse Ugo, la risposta è spiazzante ma non sofferta. Libera e liberatoria. “Affettuoso non è il termine più adatto, sarei bugiarda. Non lo era. Mostrava la sua delicatezza in modo originale. Non era il padre che ti dava baci, faceva telefonate o regali ma oggi, retrospettivamente, non gli rimprovero nulla”.
Dell’ultima fase di Tognazzi, quella in cui il suo universo di riferimento, scopertosi avaro, gli offriva sempre meno, Maria Sole parla con disincanto. Conseguenze dell’amore, divieto di lamento. “Non lo dimenticarono, semplicemente erano cambiati i tempi e ruoli come quelli che aveva interpretato nei ’60 e nei ’70, non c’erano più”. Alla fine, come estrema difesa, Ugo si rifugiò in teatro: “Con la Comédie Française a Parigi. Una settimana prima di mettere in scena all’Eliseo di Roma M. Butterfly, lo fermò un ictus. Dopo tre giorni, Ugo non c’era più”.
Di Ugo, nel trapasso solitario e finale, si ricordò Pupi Avati. Maria Sole l’ha intervistato. “Nel 1975, Pupi era un regista giovane, con un paio di insuccessi alle spalle. Papà il più famoso attore italiano”. Immaginarli insieme, un’utopia distonica. “Avati lo chiamò per La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone”. Titolo wertmulleriano, esito incerto. “Ugo accettò di farlo gratis e Pupi, cui l’agente dopo i due flop degli esordi aveva consigliato persino di cambiare nome, seppe ricambiarlo nel 1987, a distanza di quasi 25 anni, convocandolo per un bell’apologo sul mondo del calcio Ultimo minuto. Papà era entusiasta, felice, commosso”.
Esordiente al tramonto, eterno ragazzo a proprio agio nella precarietà. “Misuratissimo”. L’ultimo fotogramma di Maria Sole è per la beffa mediatica che segnò il crepuscolo dei ’70. Il finto arresto di Ugo Tognazzi, capo delle Br, all’indomani del fermo di Toni Negri, il 7 aprile ’79. Prime pagine (Stampa, Paese sera, il Giorno) editoriali seri e dolenti. “Quando la comicità diventa eversione”. “Lui era d’accordo con alcuni amici di Ricky che lavoravano per il settimanale satirico Il Male. Mi vennero a prendere a scuola, preoccupatissimi. Papà si prestò alla farsa, facendosi arrestare e uscendo da un frigorifero nel quale si era nascosto”. Rivendicò “il diritto alla cazzata” Ugo e Sole sussurra: “Esagerò e forse si pentì”.
Il sogno conclusivo, tenere insieme i frutti degli amori più lontani tra loro, le famiglie allargate, il filo tra necessarie bugie, leggerezza e impegni, non ha sofferto di velleitarismo. “Le case in cui viviamo, sono l’appendice di Ugo. Nel suo progetto anarchico, realizzò la sua visione. Tra fratelli ci vogliamo bene anche se gli affluenti hanno spinto ognuno di noi a inseguire il proprio sbocco al mare. Mia madre c’è, il respiro di papà soffia in ogni stanza, indipendentemente da noi, dalle nostre mancanze e distrazioni che non sappiamo o vogliamo evitare”.