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GIANMARCO TOGNAZZI A LA FELTRINELLI |
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«Mio padre? Con la sua cucina mi ha insegnato la vita a tavola» |
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«Per me la cucina di papà è stata una grande lezione di vita, un punto d'incontro e di scontro ma soprattutto l'ingresso in un mondo affascinante». Testimone delle leggendarie «grandi abbuffate» della villa di Velletri, Gianmarco Tognazzi (che sarà stasera alle 18,30 a «La Feltrinelli» di piazza dei Martiri per presentare con Francesco De Core, Antonio Fiore e Giulio Baffi la ristampa di Avagliano de "L'abbuffone", libro di ricette di suo padre Ugo), rievoca con passione la sua educazione sentimental-gastronomica, intrecciando le fila di un personale romanzo familiare. Figlio di cotanto padre, grande attore cuoco impareggiabile, antesignano della divulgazione della cultura gastronomica e anfitrione indimenticabile, Gianmarco parla dei suoi ricordi di ragazzino, quando faceva da assaggiatore personale dei piatti di papà, e quando amare la cucina era per lui un modo per attirare l'attenzione di un padre spesso assente da casa per lavoro. |
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Cosa ricorda in particolare di quelle cene? |
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«Ugo le chiamava le cene dei dodici apostoli, ed è facile capire lui che ruolo occupava nella tavolata. Ho avuto la fortuna di parteciparvi perché papà mi usava come riserva. Se mancava uno dei commensali, come Monicelli, Ferreri o Villaggio, avevo il privilegio di sedermi a tavola con loro e di apprezzare le straordinarie qualità istrioniche di mio padre, per il quale le cene erano soprattutto un'occasione per contornarsi di amici e parlare di lavoro, di donne, di sport. Per me era un'opportunità straordinaria: da quelle cene ho imparato tutto sul cinema e sul mondo. In quelle occasioni ho capito che volevo fare l'attore». |
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Qual era il pregio principale del Tognazzi cuoco? |
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«La commissione tra i gusti e le diverse tradizioni gastronomiche e la capacità di rischiare, come nel cinema. Se ripeteva lo stesso piatto dieci volte cambiava sempre la metodologia di preparazione. Si esponeva a dei rischi, anche. Alle sue cene si davano i voti, e non c'era niente di peggio per lui del fallimento culinario. Se un piatto non veniva apprezzato, cosa che avveniva rarissimamente, si alzava da tavola e si chiudeva in camera, lasciando i suoi ospiti per il resto della serata. La cucina per lui era una passione totalizzante, e una continua elaborazione. Aveva il suo orto perché voleva che tutto provenisse dalla sua terra. Cucinare era un elogio della vita e della natura». |
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La sua migliore ricetta? |
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«Impossibile rispondere. È come chiedere qual è stato il suo film migliore. Posso dire di un certo tipo di sapore che riusciva a cavar fuori dalla zuppa col cavolo nero o dalle ribollite, ad esempio. Ma ci sarebbero almeno una quarantina di piatti da citare». |
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